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Questo articolo è stato pubblicato il 15 giugno 2010 alle ore 15:29.
Per i sudafricani è festa, e ora anche per i tifosi arrivati da tutto il mondo. La vuvuzela è il simbolo di queste prime partite del Mondiale, è diventata di tutti. Gianni Petrucci ieri sera si è lamentato per l'assordante rumore che ha ovattato Italia-Paraguay al Green Point di Cape Town. Anche la Francia ha alzato la voce, ma Sepp Blatter, presidente della Fifa, è stato categorico: «Non prendo in considerazione un divieto delle tradizioni musicali dei tifosi nel loro paese. Vorreste che venissero vietate le usanze dei vostri fans? Ho sempre detto che l'Africa ha ritmi differenti e diversi suoni».
Ormai non sono solo i sudafricani a usare le vuvuzela (chiamate anche lepatata) in modo incessante alle partite: gli stranieri le scelgono con cura in base alla bandiera che vi è disegnata, le comprano, le portano allo stadio e le usano creando un rumore monocorde e fortissimo che azzera ogni altro tentativo di coro. Non sono organizzati, non c'è un direttore di vuvuzela, ognuno per sé e la vuvuzela per tutti. E dire che usare queste trombe in plastica lunghe circa un metro non è così facile: bisogna avere polmoni da ciclista.
L'effetto è disturbante, come potrebbe esserlo quello del motore di un aereo che sta fermo per ore sulla pista di decollo. Come potrebbe esserlo "fare vuvu" in continuazione: forse proprio da questo verbo della lingua zulu deriva il nome della trombetta (anche se altri studiosi ritengono che la parola sia un termine gergale che significa "doccia").
Per ora la vuvuzela è sentimenti opposti: amore e odio. Ai produttori basta: da ottobre a oggi in Europa ne sono già state vendute oltre 1,5 milioni e si stima che durante il campionato del mondo le vuvuzela faranno incassare fra 1,5 e 2 milioni di euro (ognuna costa fra 2 e 6 euro).