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Lippi se ne va, ma l'Italia ha buttato due anni

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 giugno 2010 alle ore 21:46.

50, 54, 62, 66, 74. E 10. Numeri. Che possono tornar buoni, eventualmente, per il Superenalotto. Ma sono anche i numeri neri del calcio italiano, gli anni in cui ci hanno sbattuti fuori al primo giro ad un Mondiale. Ma è stata anche la prima volta che i nostri son tornati a casa senza innescare nemmeno uno straccio di carosello. Almeno tutte le altre volte c'era stata l'illusione di una vittoria. Ora no. Buio. La leggenda dei campioni del mondo finisce qui e così, in modo brutale, ultimi del girone più scarso, quasi una caricatura. Normale pensare adesso che il protagonista di questo nostro disgraziatissimo torneo sia stato chi non c'era. E qui va a gusti, da Cassano a Balotelli, fino a Totti e Miccoli. Potete anche mentire a voi stessi e convincervi che con uno di loro sarebbe cambiato tutto. Ma non è così.

Questa è una squadra che non c'è più e un giocatore, per quanto bravo, non ha il potere di dare la vita. L'istantanea che arriva dal Sudafrica è invece triste, quasi struggente. Dentro c'è Marcello Lippi in divisa rossa che tiene l'ultima conferenza stampa della sua storia da commissario tecnico. Mentre dice che «mi prendo tutta la responsabilità, la squadra è andata in campo con il terrore ed è solo colpa mia. Mi dispiace da morire chiudere così». Mentre dice tutto questo - giusto, legittimo, vero: è colpa sua – vengono in mente lampi di altre conferenze stampa. Quelle drammatiche e roventi dei giorni di Calciopoli appena scoppiata in faccia ai Mondiali 2006, quelle piene di orgoglio crescente sulla strada di una vittoria incredibile, quelle dell'addio, quelle del ritorno, quelle del record di Pozzo, quelle del successore annunciato, quelle della nuova incerta speranza, quelle dei troppi dubbi che sono poi stati l'origine dell'ultima, quella delle lacrime appunto. Brutto chiudere una così una storia così bella, ma forse non c'era altra maniera se non in certi film.

La verità è che abbiamo visto un sacco di Marcello Lippi negli ultimi quindici anni, non tutte versioni gradevoli per tutti, ma sempre di un uomo e di un allenatore sicuro di sé fino ai confini della presunzione. Lippi indeciso mai. È come se l'Italia, con pochissime energie e scarso talento, avesse fiutato e assorbito questa paura, fino alla paralisi. Che è stata quella di ieri contro un'avversaria che non aveva molto più della corsa e della disciplina da mettere sul piatto. Incertezze di modulo e di interpreti, per lui che di solito non deve chiedere mai e nemmeno spiegare. Stavolta li ha provati tutti, anche dando ascolto al vento dell'opinione pubblica, come un Donadoni qualsiasi. Ogni scelta peggiore di quella precedente, col condimento della sfiga come è normale che sia, fino a un Gattuso, povera stella, impresentabile.

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Ma lì Marcello aveva già perso, perché si stava affidando non alla logica calcistica, ma uno spirito e a un'idea. Del resto era rimasto solo quello. Adesso Lippi se ne va. Anzi se ne è già andato, caricandosi in spalla il gigantesco fagotto delle responsabilità che si è preso e che gli spettano di diritto, anche se in fondo non è chiarissimo a quali conseguenze portino, visto che già non c'è più. E proprio qui sta il paradosso che disarma anche la critica più feroce: come farà a pagare? Con la panchina, come sarebbe stato ovvio no, già fatto. C'è già Prandelli al posto suo. E allora? C'è chi rivorrebbe indietro un po' dei soldi che ha preso. Difficile. Chi lo vorrebbe in esilio, chi alla gogna, chi sul patibolo. Visto che siamo nel vasto campo dell'irrealtà e della rabbia, noi vorremmo riavvolgere il nastro del tempo fino al giorno in cui, due anni fa, gonfi di delusione per l'Europeo storto, avevano riscaldato la minestra. Donadoni era inadeguato, probabilmente vero, ma ci voleva il coraggio di cominciare a scrivere una pagina nuova e diversa, molto difficile. Cosa che accadrà da oggi, con due anni almeno di ritardo.

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