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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2010 alle ore 14:07.
Giancarlo Abete non rinnega la scelta di Marcello Lippi, sostiene di avere la coscienza a posto, non dice che resterà al suo posto, nè che lo lascerà. Il giorno dopo il fallimento degli azzurri ai mondiali sudafricani il presidente della Federcalcio si presenta davanti ai giornalisti a «Casa Azzurri». Il volto è teso, la delusione evidente, come sono evidenti le critiche feroci, che coinvolgono tutti e ovviamente anche il presidente della federazione. L'argomento dimissioni è stato più volte toccato durante la lunga conferenza stampa del presidente della Figc,che ha affrontato il tema senza nascondersi.
«Io ho tutta la volontà di svolgere la mia attività nel modo più funzionale agli interessi del nostro calcio - ha dichiarato Abete -. Non sono legato alla logica della poltrona, non l'ho mai fatto e credo che lo dica la mia ventennale carriera da dirigente sportivo. Io con assoluta serenità devo rispondere in primis alla mia coscienza, poi alla base che mi ha eletto. Ho il dovere di condividere tutte le riflessioni all'interno del Consiglio Federale che faremo il 2 luglio. Ma in primis rispondo alla mia coscienza, che è il mio punto di riferimento, e alla responsabilità di dare luogo ad una politica di rilancio e ricostruzione». La nazionale è uscita con le ossa rotte da questo torneo e le responsabilità, oltre che essere del ct e dei giocatori, sono anche della federazione, perchè le sconfitte, come le vittorie, sono di tutti.
«Io non ho detto che non me ne vado, ho detto una cosa diversa - spiega Abete -. Non vedo un rapporto diretto tra la nomina e la scelta del commissario tecnico e una logica di dimissioni. In questo momento il calcio italiano ha bisogno di ripartire, adesso bisognerà trovare una condivisione su quello che è avvenuto e sulla necessità di un rilancio con il Consiglio Federale e con la base che mi ha eletto. Ma il problema delle dimissioni, se è legato alla scelta di aver richiamato Lippi, non si pone. Una scelta, quella del ct, che non rinnego».