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Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2010 alle ore 16:52.
Non serve essere degli Special One per scrivere la storia. Tabárez, Van Marwijk, Löw e Del Bosque si giocano i due posti della finale di domenica, e uno di loro alzerà la coppa. Senza spocchia né presunzione, senza trattare male i giornalisti e snobbare i tifosi, senza rosari di scaramanzie. Senza fare i fenomeni, ma trovando i fenomeni. La Spagna con quella maraVilla che segna a raffica, la Germania con i suoi ragazzi terribili, l'Uruguay con la storia che non aspetta e l'Olanda con gli scarti diventati testate d'angolo. Tutto merito di quattro ct, ex giocatori di poco conto, che hanno saputo vivere, costi quel che costi, e vincere. Ke nako, come dice lo slogan del mondiale, è il loro momento.
Bert Van Marwijk. Ha messo da parte il calcio totale di Cruijff, ha snaturato gli oranje con una difesa bloccata a 4 più due mediani per sfruttare Robben e Sneijder, e ha perso solo una partita in due anni. Il suo vangelo è "vincere". Lo diceva da giocatore, ma rimase ai margini, lo diceva da allenatore di periferia ma sempre sognando in grande. Nel contratto che lo legava al Feyenoord, aveva lasciato spazio per quel sogno: rescissione immediata se l'avesse cercato l'Olanda. Così è stato dopo il naufragio di Euro 2008 del fenomeno Van Basten. «Non ho troppe regole in testa : essere creativi, veloci e tecnici». Basta e avanza: Olanda in semifinale con lo scalpo del Brasile. Perché, spiega Sneijder, «il ct non è mica come quei due idioti di Maradona e Dunga». «Devo ringraziare - continua il ct olandese - molti miei colleghi: Mourinho, Ferguson, Van Gaal, Wenger». Quelli che allenano durante la stagione i due terzi dell'Olanda, squadra d'esportazione che, una volta unita, gioca come il Barcellona: pochi tocchi di palla e spazi letali. L'Olanda è il paese della libertà, dell'eutanasia, sempre primo nelle scelte di frontiera, ma che male c'è a copiare, nel calcio almeno? «Prima della bellezza viene la vittoria», parola di Bert.
Oscar Washington Tabárez. Gli occhi sono meno stropicciati della notte batticuore contro il Ghana. L'anima no. Alla conferenza stampa di ieri Tabárez, 63 anni e mai un capello in disordine ha detto: «C'era una festa, non ci hanno invitato e ci siamo imbucati. E ora abbiamo il diritto di rimanere». Lo chiamano il Maestro, perché lo è stato davvero, legge romanzi e saggi di filosofia, mica come Mourinho che non ha un libro preferito dato che lui è oltre tutto. Tabárez, invece, ama stare con i suoi giocatori, li tratta da grandi e dà del lei a tutti. È alla sua seconda esperienza Mondiale: era giovane e forte a Italia '90. Ora, che coi post di Diego Forlan è finito su Twitter, forse di più. Dice di lui Abreu, il capellone del cucchiaio da infarto al Ghana: «Ci spiega quel che vuole e noi lo facciamo». Mica come quando, all'arrivo a Milanello nel 1996, Berlusconi se ne uscì con una delle sue: «Tabárez? E chi è, uno che canta a Sanremo?». E poi o si fa la storia o si muore: «È una gara difficile, non impossibile». L'Uruguay non conquistava la semifinale da Messico '70. Una vita. Tabárez lo sa e guarda ammirato Abreu che si batte la mano sul cuore e indica le quattro stelle sulla maglia celeste: due Mondiali e due Olimpiadi. È tempo di acchiapparne un'altra, di stella.