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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2012 alle ore 08:19.
Per la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (1)le telefonate di gente in crisi dovevano essere la norma. Inviarono subito una squadra di soccorso: un'altra coppia, di pensionati sulla settantina. Nel giro di un'ora, erano al fianco di mio padre. Gli parlarono per tutta la mattina a porte chiuse, convincendolo ad accompagnarli in chiesa la domenica seguente. Il servizio lo tranquillizzò e migliorò il suo umore. Mia madre vide, prese speranza, non lo lasciò. I missionari in bici si presentarono qualche sera dopo.
«Caro Padre Celeste», cominciavano le loro preghiere. Sedevano fianco a fianco sul nostro vecchio divano blu; perle lattiginose di sudore misto a talco colavano dalle loro tempie e dalle guance. Benedirono la nostra famiglia e la nostra casa. Ci chiesero di ascoltare il loro messaggio con mente aperta. La prima sera, ci mostrarono un film che parlava di un ragazzo, Joseph Smith, che un giorno del 1820 era andato a pregare nel bosco dietro la fattoria dei genitori e si era trovato faccia a faccia con Dio e Gesù. Le lezioni che seguirono descrivevano quanto accadde, a partire dalla traduzione di Smith di un libro d'oro che aveva trovato sepolto sul fianco di una collina, fino alle tribolazioni dei primi discepoli. In cerca di un luogo dove vivere in pace la loro nuova fede, si spostarono di accampamento in accampamento in direzione ovest, tormentati da bande di brutali vigilantes che infine assassinarono Smith in Illinois. Il suo popolo però resistette. Sotto un nuovo leader coraggioso, Brigham Young, intrapresero una marcia di mille miglia che li portò fino in Utah.
I missionari continuarono a venire per sei settimane, sempre la sera, sedevano con noi alle celebrazioni, uno alla nostra destra e uno alla nostra sinistra. E poi arrivò il momento; ci dissero che eravamo pronti. In piedi in una vasca di acqua che arrivava alla vita, in tonache bianche, ci tenemmo per mano come per pregare, lasciammo che i missionari ci stringessero i polsi, ci adagiammo di schiena, ci immergemmo, ed entrammo nella chiesa mormone.
Lo scorso inverno ero in soggiorno a casa mia a bere caffè e guardare Mitt Romney in televisione: parlava dopo aver vinto di misura le primarie in Michigan. Il discorso era da repubblicano tipico, diceva di limitare il governo federale e ripristinare la grandezza dell'America, ma non ero concentrato sulla retorica di Romney. Esaminavo il viso, le sue maniere, e cercavo – ammesso che si possa – di guardare nella sua anima, di vedere il mormone che è in lui.
Non ero mai stato un bravo mormone, come presto scoprirete (e al momento nemmeno sono più mormone), ma il dibattito sulla religione scatenato dalla corsa di Romney (2) mi aveva suscitato sentimenti di sorprendente intensità. Gli attacchi alla religione mormona da parte degli intellettuali liberal e dei loro improbabili compagni di sfottò, i cristiani evangelici, conservatori, mi riempirono di risentimento, in particolare quando citavano la «biancheria magica» e altri presunti inquietanti aspetti settari della dottrina e teologia mormona. D'altra parte, veniva giustamente fatto presente l'appoggio decisivo delle alte gerarchie mormoni alla Proposition 8, il bando al matrimonio gay autorizzato in California, che mi aveva disgustato. Emozioni più profonde e complicate affioravano ogni volta che mi imbattevo nell'emblema preferito dai media per raccontare la chiesa mormone: un giovane missionario di sesso maschile in camicia e cravatta con una targhetta nera di plastica con su scritto il nome appuntata alla tasca del gilet. L'immagine dava l'idea che i mormoni fossero dei robot, un esercito di plagiati fuori dal mondo. Questa cosa un po' mi feriva.
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