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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2010 alle ore 13:03.
Spinti dai venti della globalizzazione i territori del sistema paese si stanno riposizionando. Anche il Mezzogiorno spesso rappresentato come terra dell'immobilità, se visto più da vicino, appare percorso da profondi cambiamenti. È il caso della Puglia. Basta percorrere l'A14, sorta di grande main street della città adriatica che da Rimini giunge fino a Bari, per capire come sia all'opera un grande flusso di lunga deriva fatto non soltanto di grande impresa trasferita da nord e sud, ma di agricoltura, turistizzazione del territorio, capitalismo leggero del made in Italy che oggi si confronta con la crisi. Al suo estremo è Lecce, città di confine che a partire dal suo patrimonio storico sta oggi vivendo una stagione di profonda transizione.
Le statistiche ci dicono che la forte economia turistica e un settore pubblico che arriva al 20% della ricchezza provinciale hanno attutito il colpo della crisi. Che però ha colpito duro proprio quella manifattura leggera del Tac, già in difficoltà per la concorrenza asiatica, e quei grandi gruppi della meccanica che nel decennio precedente anche a Lecce avevano tracciato la via del modello Puglia fino al 2008. Anche le reti lunghe del distretto aerospaziale a cavallo tra Lecce, Taranto e Brindisi con propaggini fino in Piemonte e Lombardia, fatto non solo da big players ma da filiere di pmi iperspecializzate e otto centri di ricerca tra pubblici e privati, nonostante le difficoltà della crisi sembra tenere. Pesa invece la mancanza di reti materiali.
Ma la forza di Lecce e la novità del suo percorso sta, in primo luogo, nel suo divenire sempre più città di servizi e della conoscenza con un mix funzionale il cui centro propulsore è la messa a valore di scienza e beni culturali. È a partire da questo tratto che la grande crisi finora non si è configurata solo come distruzione di risorse, ma anche come liberazione di energie locali a partire dalle quali la città e il territorio sembrano aver imboccato la strada di una dolce transizione terziaria. Fatta di quattro componenti: un manifatturiero che, abbandonata la strada della sola proliferazione imprenditoriale, è sotto sforzo per rivisitarsi a partire dal rafforzamento delle reti lunghe rispetto ai poli universitari del sud; un'agricoltura da modernizzare con il passaggio alle tipicità sorrette da un brand territoriale e la ricerca di uno sbocco nella filiera agroalimentare; un settore delle energie che appare in forte crescita e necessita di flussi di trasferimento scientifico; un turismo che partendo dalla messa a valore della cultura popolare nei circuiti dell'economia delle esperienze continua a fare del Salento una piattaforma dell'incoming globale che funziona. Motore e circuito connettivo della transizione lo sviluppo di un terziario creativo che ha trovato a Lecce nel forte ruolo dell'Università, dei centri di ricerca e dei beni culturali le risorse per iniziare a costruire filamenti di un'economia della rappresentazione, magari imperniata su una cinematografia territoriale di qualità favorita dall'apertura in città del secondo cine-porto-incubatore creativo, dopo quello di Bari.