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Questo articolo è stato pubblicato il 30 giugno 2010 alle ore 09:05.
L'ultima modifica è del 30 maggio 2010 alle ore 13:05.
L'ingegner Arturo de Risi, 43 anni, traccia le righe con una penna blu su un pezzo di carta. «Vede, questo è il rendimento di un pannello fotovoltaico: tra il 12 e il 14% della potenza assorbita dal sole. E questo è il rendimento del sistema che stiamo studiando, il solare termodinamico: siamo al 28%, il doppio». Sorride soddisfatto, de Risi, nella sua stanza della facoltà di Ingegneria all'Università del Salento, periferia di Lecce, in quello che sembra un campus all'americana, e dove insegna ingegneria dell'innovazione. Tre ore più tardi, e 70 chilometri più a sud, Julius Stoffer, 53 anni, olandese di Maastricht, sta con la faccia all'insù sul lungomare di Santa Maria di Leuca, estrema punta meridionale del Salento, nel luogo esatto dove si incontrano l'Adriatico e lo Jonio: «Una settimana di vacanza in una masseria a cinque stelle – gongola –. Centro benessere, panorama splendido, mare incantevole. E poi il sole...».
Già, il sole. Cosa significhi il sole per il Salento lo si comprende percorrendo la statale 16 da Lecce a Leuca. Qui non ci sono le grandi autostrade della Lombardia, non ci sono i capannoni che assediano le arterie del Veneto, né gli snodi ferroviari del Piemonte. Ci sono ulivi e pannelli solari, pannelli solari e ulivi. Perché il sole significa molte cose: turismo e ricerca, lavoro e sviluppo, know how e innovazione. Il Salento del futuro ha il naso all'insù e guarda al sole come fonte primaria di sostentamento, come cento anni fa gli agricoltori della tradizione contadina. È questa la via salentina alla soft economy.
Bisogna tornare nella stanza di de Risi, all'Università di Lecce, per capirne la portata rivoluzionaria. Le sue ricerche sul solare termodinamico a nanoparticelle, in collaborazione con l'Istituto di nanotecnologie diretto da Roberto Cingolani, hanno fatto drizzare le antenne alle multinazionali straniere dell'energia, che hanno aperto più di una sede nel capoluogo salentino. È il paradosso dell'immateriale. Accorrono qui, nell'estremo sud dell'Italia, attratte da un'idea: fare business con la ricerca. Una ricetta in voga nell'estremo nord dell'Europa, in Svezia, in Germania, molto meno nel Belpaese. Ma de Risi ha coinvolto undici aziende nelle sue ricerche, ha un budget di 5 milioni di euro, il 30% pubblico, il resto dai privati, otto docenti e un centinaio di ricercatori a contratto.
È attorno all'Università del Salento, uno dei 19 atenei italiani più virtuosi, che si sta aggregando un'idea di sviluppo del Salento basato sulla ricerca e l'innovazione. Il made in Italy leggero che fa da contraltare, per scelta e per necessità, allo sviluppo basato sul manifatturiero del nord Italia. «Dalla nostra università sono nati 18 spin off e altri sei sono in cantiere – osserva il rettore, Domenico Laforgia, nel suo ufficio che è un misto tra storia e hi-tech –. Qui a Lecce è nato un microgel utilizzato nelle diete perché viene assorbito dall'organismo e riduce il desiderio di mangiare. Lo spin off che lo ha realizzato è stato acquisito da un fondo di investimento statunitense che sta investendo sul prodotto 30 milioni di dollari». Il know how è "made in Salento" ed è questo l'aspetto più importante: i successi nella ricerca dell'università pugliese attirano l'interesse di fondi e aziende straniere, calamitando nuovi finanziamenti e nuove ricerche, in un circolo virtuoso che crea uno sviluppo non basato sulle fabbriche ma sulle idee. Una sorta di modello salentino che fonda la sua scommessa sulla qualità, sui piccoli numeri, sulla sostenibilità.