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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2010 alle ore 11:57.
Sono stato ad Ascoli Piceno la scorsa settimana. Invitato a un'iniziativa promossa dalla Cna che metteva assieme 400 rappresentanti del capitalismo molecolare della terza Italia che va dall'Emilia-Romagna all'Umbria. Eravamo lì a parlare del futuro delle Pmi e delle reti di impresa. Che fino a qualche anno fa erano un'opportunità per competere. E che oggi, invece, sempre più, rappresentano una necessità per sopravvivere. In questo contesto, Ascoli, pur essendo al centro del centro del paese, rappresenta una terra di frontiera. Che rischia di essere rappresentata come terra di nessuno da un dibattito pubblico che tende a derubricare ciò che non è nord né sud. Come se l'alterità della terza Italia di Giacomo Becattini e dei metalmezzadri raccontati da Giorgio Fuà fosse un tertium non datur, un modello inadeguato.
Eppure, in questi luoghi, emerge tutta la vibratilità del margine, la sua talvolta misconosciuta centralità. È qui, a San Benedetto del Tronto, per esempio, che si decide il prezzo del pesce che verrà venduto in Italia. Lunghe derive storiche che determinano il punto di partenza dal quale diparte il percorso di evoluzione di quella Città adriatica che va dal delta del Po giù sino alla Puglia di un emergente ed embrionale capitalismo dolce. Destava stupore, solo qualche anno fa, scoprire che quella di Ascoli Piceno era la terza provincia italiana per numero di designer sul totale degli addetti delle imprese del made in Italy. Quasi l'8%, dietro solo a Milano e Como.
Era una parabola, peraltro, suffragata da ulteriori numeri. Che testimoniavano la forte crescita economica della provincia, sui binari del consueto paradigma adriatico, frutto cioè di un sapiente ed equilibrato mix tra manifattura e terziario. Che aveva fatto di Ascoli Piceno la seconda economia regionale per valore aggiunto, seconda solo ad Ancona. Roba da far pensare che almeno un brutto anatroccolo di quelli che nuotavano nello stagno della Cassa del Mezzogiorno fosse finalmente diventato uno dei cigni neri dell'economia italiana, territori che producono e competono nella globalizzazione.
Poi è arrivata la crisi. Che ha avuto un impatto violento sul territorio ascolano. Crescita della cassa integrazione a tre cifre - i dati più recenti parlano di un +259% rispetto all'anno scorso - con un calo dell'occupazione che va addirittura in controtendenza rispetto agli ultimi, positivi, dati regionali. Uno scenario non certo roseo, cui assume una rilevanza centrale l'annunciata delocalizzazione dello storico stabilimento della Manuli, azienda milanese che produce tubi di gomma, che rappresenta, come pochi altri il vero e proprio simbolo dell'industrializzazione del Piceno. In basso, apparentemente inerme e spaurita, una società locale sempre più anziana e meticcia. Due numeri su tutti: in cinque anni, gli abitanti con più di ottant'anni di età sono aumentati del 21,2% e quelli stranieri del 73,5 per cento.