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Questo articolo è stato pubblicato il 13 dicembre 2011 alle ore 17:00.

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Un portone si apre, una folla di lavoratori - per lo più donne in abbigliamento fine Ottocento - escono in massa, attraversano la strada un cane, una bicicletta, una carrozza. Sono le immagini, sbiadite e in bianco e nero, di L'uscita dalle officine Lumière; il cortometraggio, uno dei primi della storia del cinema, è l'emblema del sodalizio tra celluloide e mondo del lavoro. Un rapporto continuato negli anni attraverso le pellicole più diverse, capaci di tratteggiare ora in modo ironico ed esilarante, ora drammatico e di denuncia problematiche e cambiamenti della realtà lavorativa. Come se la settima arte si intrecciasse con i modelli messi a punto dalle società di consulenza, offrendo spunti di riflessione per manager e dipendenti.

Uno dei maggiori successi della stagione cinematografica 2011 è stato Horrible bosses, black comedy americana diretta da Seth Gordon a cui non rende forse giustizia il titolo italiano: Come ammazzare il capo... e vivere felici!. Il film, realizzato con un budget di circa 35 milioni di dollari, è uscito negli Stati Uniti a luglio e, a fine ottobre, aveva già incassato in tutto il mondo oltre 200 miliardi. Racconta la vicenda, grottesca e surreale, di tre amici che mettono a punto un disperato quanto sgangherato progetto per liberarsi di capi che stanno rendendo la loro vita lavorativa impossibile. Al di là della satira, che si avvale di un cast di tutto rispetto, dove svettano Kevin Spacey, Colin Farrell, Jennifer Aniston e Jamie Foxx, si possono cogliere nel film istanze e frustrazioni legate al proprio ambiente di lavoro e al rapporto con il capo: su tutti, l'esigenza che sia rispettata la propria professionalità e che ci siano giustizia nel riconoscere i meriti ed equità di trattamento dei dipendenti. Rispetto, equità: non a caso due parole chiave nel modello messo a punto da Great Place to Work per valutare la qualità delle relazioni in azienda.

Restando negli Stati Uniti e nell'ambito della commedia, non si può tralasciare un classico tra i film "aziendali": Il segreto del mio successo (1987) di Herbert Ross, con Michael J. Fox, nei panni di un giovane neolaureato che dal Kansas arriva a New York per cercare fortuna. Brantley - questo il nome del protagonista - è il tipico self-made man che, con grande intraprendenza e una buona dose di fortuna, riesce a scalare l'azienda in cui è stato assunto come fattorino; ma la sua parabola offre anche uno spaccato della vita di un grande gruppo, dei rapporti tra i colleghi, delle doti richieste a un buon manager a cominciare dalla sua credibilità: competenza, integrità, capacità di comunicare. Emblematiche alcune battute del film («Esperienza? In pratica nessuna, ma credo in me stesso») o alcune sequenze, come quelle in cui Brantley mette riparo ad alcuni aspetti di cattiva gestione aziendale.

Tutt'altro tono ma scenari e temi molto simili nel più recente La ricerca della felicità (2006), opera prima americana del regista italiano Gabriele Muccino. Il film, altro campione di incassi al botteghino, si ispira all'ascesa di Chris Gardner (interpretato da Will Smith), che diventa imprenditore milionario dopo aver superato un durissimo periodo di povertà che lo costringe a trascorrere le notti nei dormitori per i senzatetto con il figlio bambino, studiando la notte per farsi assumere da una società di consulenza. Ma alla fine Chris ce la fa, soprattutto grazie all'orgoglio e alla consapevolezza del proprio valore, altre parole chiave del modello già citato di Great Place to Work. «Non permettere mai a nessuno - dichiara a un certo punto il protagonista - di dirti che non sai fare qualcosa».

Una visione molto negativa della realtà aziendale emerge invece da Il grande capo (2007) di Lars von Trier, una sorta di spietata allegoria dei rischi a cui la globalizzazione espone il mondo del lavoro: non solo il dipendente, che subisce decisioni lontane e incomprensibili, ma anche il manager, incapace di stabilire con i collaboratori un rapporto autentico. Nel film infatti il proprietario di una grande azienda di informatica - che ai dipendenti si è sempre presentato come il portavoce di un "grande capo" a cui ha attribuito tutte le decisioni "scomode" - assume un attore per recitare il ruolo del boss nel momento della cessione a un'altra impresa.

Entrando nell'ambito del cinema di denuncia, meritano almeno una citazione i film di impegno sociale, che descrivono le condizioni di alienazione o sfruttamento della classe operaia, dal capolavoro di Charlie Chaplin, Tempi moderni (1936) all'ampia produzione del regista britannico Ken Loach. Si tratta di pellicole con un taglio diverso, dove l'ambiente di lavoro non rimane il focus della narrazione che punta a un discorso più ampio sulla società, il progresso, i rapporti di classe.

Sono tematiche che ritroviamo anche - e qui ci spostiamo in Italia - in Tutta la vita davanti, la commedia amara di Paolo Virzì (2008) ambientata in un call center della periferia romana. In questo film però l'ambiente di lavoro torna centrale e alcune questioni essenziali della vita aziendale, dalla formazione alla motivazione dei dipendenti, si impongono all'attenzione, seppure nella luce negativa o caricaturale di cui il regista le circonda.

Una carrellata su cinema e mondo del lavoro, in questo caso quello impiegatizio, non può che concludersi con un vero e proprio cult della commedia italiana, la saga di Ugo Fantozzi, ideata e portata sul grande schermo (per la prima volta nel 1975, con la regia di Luciano Salce) da Paolo Villaggio. Nelle vicende surreali e tragicomiche del goffo ragioniere, zimbello dei dirigenti e dei colleghi, c'è una satira che diventa acuta analisi delle dinamiche dell'ufficio di quegli anni (e non solo): lo scatto da centometristi dei dipendenti all'uscita da un lavoro chiaramente subìto, i rapporti smaccatamente adulatori con i vertici, l'odiato cineforum e le gite aziendali...L'ironia feroce le addita come elementi negativi: tutto quello che non fa del posto di lavoro un "great workplace". Un suggerimento da tener presente.

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