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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2012 alle ore 07:52.

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Il made in Italy a passo da record (Imagoeconomica)Il made in Italy a passo da record (Imagoeconomica)

Il 2011 si è chiuso a passo di carica per l'export italiano. Il che è un grande merito delle nostre imprese, sempre più strette dal credit crunch documentato da questo giornale in questi giorni e dai persistenti ostacoli burocratici all'attività imprenditoriale che sono una delle più pesanti palle al piede del nostro Paese. Senza contare altri fattori penalizzanti come l'incertezza del diritto, i costi energetici e l'inadeguatezza del sistema infrastrutturale italiano.
Nel mese di dicembre il dato mensile destagionalizzato delle esportazioni italiane in valore ha battuto ogni record storico bruciando ogni precedente massimo storico. Anche la media mobile di tre mesi dell'export destagionalizzato ha raggiunto a novembre 2011 un nuovo record superando il picco pre-crisi. Dunque, dopo aver perso durante la recessione il 30% circa dei livelli di export antecedenti lo scoppio del crack mondiale del 2008-2009, a fine 2011 le nostre vendite all'estero hanno già più che recuperato tutto quello che era andato in fumo e per di più in tempi assai più difficili ed improntati all'austerità rispetto all'epoca di "bolle" immobiliari-finanziarie e di debiti facili a livello internazionale precedente il fallimento di Lehman Brothers.

Qualcuno ha adombrato il significato di questo successo italiano facendo rilevare che il nostro surplus manifatturiero nel 2011 è stato di soli 56,7 miliardi di euro, ancora inferiore del 9,6% rispetto ai 62,7 miliardi raggiunti nel 2008. Con ciò lasciando intendere che, al di là del dato positivo dell'export, nel frattempo sia cresciuto in modo assai preoccupante anche il livello di import penetration, a dimostrazione di una presunta perdita di competitività del "made in Italy". Ma queste argomentazioni sono totalmente infondate se escludiamo dal saldo della manifattura l'enorme volume di importazioni di celle fotovoltaiche indotto negli ultimi 2-3 anni dalla campagna pubblica di incentivi: un fenomeno abnorme che non ha assolutamente nulla a che vedere con l'import penetration o con una perdita di competitività. Tanto che, secondo nostre stime, escludendo le importazioni di dispositivi fotosensibili il surplus commerciale manifatturiero con l'estero del nostro Paese risulterà, quando saranno disponibili i dati definitivi per lo scorso anno, all'incirca uguale o di poco inferiore ai livelli del 2008. Un risultato persino migliore di quello della Germania.

Altri commentatori - e vi sono alcuni blog sulla rete che fanno di ciò un autentico cavallo di battaglia - continuano a negare ostinatamente che la domanda estera netta possa dare un qualunque contributo alla crescita reale del Pil italiano. Tale contributo sarebbe addirittura un luogo comune da "sfatare". Ma nell'ultimo rapporto di Prometeia del dicembre scorso è chiaramente indicato che nel 2011 l'apporto netto dell'export al Pil nazionale è stato in termini reali di 1,5 punti, senza il quale già lo scorso anno avremmo avuto una recessione superiore all'1%. Inoltre, pur rallentando a causa del peggioramento dello scenario mondiale, anche nel 2012 la domanda estera netta continuerà a dare un contributo sensibile alla crescita dell'Italia, pari a 0,9 punti, senza il quale il Pil crollerebbe ben oltre il 2,5%. Infine, è l'Istat a certificare nel suo ultimo comunicato stampa che nel 2011 l'export italiano di merci, esclusa l'energia, è cresciuto del 5,2% in volume mentre l'import è aumentato solo dello 0,8%.

Questi dati sono del tutto in linea con le ultime statistiche sulla competitività dell'Italia nel commercio mondiale pubblicate dall'International Trade Centre dell'Unctad/Wto, relative al 2010. Da anni siamo bersagliati dai media con "indicatori di competitività" che pongono regolarmente l'Italia nella parte bassa delle classifiche mondiali, superata di volta in volta persino da Paesi come lo Zimbabwe o la Bulgaria. Basti pensare all'indice elaborato dall'Imd di Losanna o a quello del World Economic Forum. In realtà, tali indicatori non sono dei veri e propri indici di competitività, bensì degli indici di attrattività dei sistemi Paese. Mentre il Trade Performance Index (Tpi) dell'Unctad/Wto, invece, guarda alla sostanza, cioè ai risultati concreti ottenuti sui mercati, premiando un Paese in termini di competitività se esso ottiene dei successi nell'export non se sulla carta ha dei fattori che lo svantaggiano rispetto alle altre economie (come è il caso dell'Italia). Sicché scopriamo dagli ultimi dati del Tpi che nel 2010 il nostro Paese, nonostante l'ambiente sfavorevole in cui si trovano ad operare le imprese, è risultato secondo per competitività nel commercio mondiale su 14 macrosettori analizzati solo alla Germania. Quest'ultima si è accaparrata 8 primi posti e un secondo posto, ma l'Italia si è guadagnata 3 primi posti (tessile, abbigliamento, calzature) e 3 secondi posti (meccanica non elettronica, metalli e manufatti di base, altri manufatti diversi), nonché un sesto posto (alimentari trasformati). I soli 7 macrosettori in cui il nostro Paese primeggia a livello mondiale valgono per noi 262 miliardi di dollari di export ed un surplus commerciale di 95 miliardi di dollari.

La classifica del Tpi per il 2010 è molto interessante perché ci dà un quadro successivo alla grande crisi del 2009, evidenziando chi ha guadagnato, conservato o perso posizioni dopo di essa. Rispetto al 2006, primo anno per cui il Tpi è stato calcolato, l'Italia ha conservato nel 2010 tutti i suoi primati di competitività ad esclusione di quello negli apparecchi elettrici ed elettronici, dove è precipitata dal secondo posto del 2006 al quattordicesimo del 2010: ciò unicamente a causa dell'eccezionale import di celle fotovoltaiche già precedentemente ricordato che ha eroso il nostro surplus storico in questo macrosettore. Rispetto al 2006, guadagnano posizioni nel ranking Unctad/Wto il Giappone e la Corea del Sud, mentre la Cina si conferma al terzo posto dietro a Germania e Italia.

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