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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2010 alle ore 17:30.
Non fai in tempo a dire, scrivere, pensare un cosa, che non vale già più, che è cambiato tutto. Meraviglioso, rivoluzionario mondiale. Sì, meraviglioso: ha preso tutti i colori dello straordinario, contraddittorio paese che lo ospita. Le mode durano lo spazio di una notte. Eravamo già tutti alle prese con la beatificazione del calcio sudamericano. Nemmeno il tempo di preparare un asado come si deve, ed ecco che la Vecchia Europa l'ha decapitato e ha stretto d'assedio la Coppa del mondo, tanto da promettere come finale una grande classica del calcio continentale. Poi magari va a finire che vincono i parenti straccioni di Argentina e Brasile. Sarebbe bello ma è probabilmente fin troppo, a meno che Luisito Suarez, dopo aver fatto il fenomeno come centravanti e come portiere, ugualmente decisivo in entrambi i ruoli, non si scopra anche stregone capace di condizionare partite stando nella gabbia degli squalificati.
Al diavolo gli esteti e tutti quelli che non hanno ancora capito che nel calcio del terzo millennio questo è il massimo livello che si può domandare a una competizione per nazionali. Se volete alchimie e sofisticazioni ci sono nove mesi di tornei per club. Qui il calcio torna a essere selvaggia espressione del dna sportivo dei popoli. Proprio per questo esige rispetto anche dai campionissimi che non ne hanno dato abbastanza e ne sono usciti umiliati. Ora verranno giustificati dalla solita tiritera di aver vissuto stagioni stressanti. Come se Sneijder che sta trascinando l'Olanda non avesse trangugiato tutte le partite dell'interminabile annata dell'Inter, pure quando lo tenevano in piedi con lo spago e gli antidolorifici. Come se a Madrid, sul campo con Wesley in finale di Champions non ci fosse stata metà della Germania che ora sta facendo fuoco e fiamme. Dice Maradona: «Un giorno Messi capirà cosa vuol dire caricarsi l'Argentina sulle spalle». Magari l'ha già capito, ma non ne è capace e forse non lo sarà mai. Come lui Cristiano Ronaldo, o Rooney, o Kakà, immensi giocatori da grandi squadre, ma senza quella personalità sconfinata che serve per mettersi il mondo in groppa e correre nella savana di un mondiale, dove tutto è primordiale e ci sono le bestie feroci (non tanto i difensori, quanto quelle con l'occhio di vetro che tutto mettono a nudo e trasmettono). Sono affondati con le loro squadre che, adesso lo sappiamo, non erano grandi squadre anche se avevano magliette dai colori storici.
L'Inghilterra come l'Italia abitata da signori nessuno a livello internazionale o da troppi giocatori pronti per il Dubai (non solo Cannavaro). Il Brasile al quale Dunga ha tolto l'anima e ha dato attaccanti di secondo piano: Luis Fabiano è un bravo operaio dell'area, Robinho un fringuellino nero che ha fatto il percorso inverso a quello dei fuoriclasse veri (Real, Manchester City, Santos) e qualcosa vorrà pur dire. Non poteva bastare mezzo Kakà che come Messi è un campione ma non ha l'aria e la faccia del trascinatore. Il mondiale vuole che le radici di una scuola calcistica siano rispettate: non si può trasformare il Brasile nella Germania, altrimenti crollano le certezze e basta un gol subito per scatenare uno psicodramma collettivo. Il mondiale è la massima espressione di quello stesso calcio che si gioca sulle strade, sulle spiagge, negli oratori, ai bordi della giungla, a seconda dell'angolo di mondo che si prende in considerazione. Non puoi bluffare fingendoti qualcun altro.