Federalismo fiscale: una riforma destinata a cambiare l'Italia

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Sul federalismo il Carroccio si scopre diviso. Decreto in aula in settimana. L'abc

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Questo articolo è stato pubblicato il 07 febbraio 2011 alle ore 08:56.

Questa volta sotto torchio c'è la Lega. Messa alle strette da una base di elettori e amministratori arrabbiata per gli esiti incerti del federalismo e disaffezionata al Pdl del Cavaliere, fa sentire il suo pressing su un partito che per la prima volta scopre delle divisioni al suo interno. Quel monolite verde, come finora si è presentato il Carroccio, vede affiorare – suo malgrado – analisi e soluzioni molto diverse sull'andare o no al voto. E soprattutto sul mollare o no l'alleato di ferro, Silvio Berlusconi.

L'abc del decreto sul federalismo (di Nicoletta Cottone e Claudio Tucci)

Il decreto in settimana in aula. Si riparte dall'Iva (di Gianni Trovati)

Tutto questo è stato evidente quando Roberto Maroni ha provato a dare un ultimatum sul federalismo ponendo l'alternativa secca delle elezioni se la riforma non fosse passata in bicameralina. La sua linea è risultata sconfitta e smentita da Umberto Bossi, che ha deciso di non staccare la spina e andare avanti con il decreto. Ma le divisioni e le incertezze restano.

Lo stop del Quirinale rimette in gioco tutto. E fa rivivere spaccature dentro il Carroccio che stenta a trovare una posizione pienamente condivisa proprio per i malumori che salgono dalla base. «Si tratta di divergenze di opinioni, nulla di più», ha provato a sminuire Roberto Castelli, ma la verità è che quel patto di ferro tra Berlusconi e Bossi viene sempre più visto come una minaccia ai fini del consenso leghista nelle valli e nei comuni del Nord.

Dietro la posizione di Maroni di andare subito alle urne, vista l'assenza di numeri parlamentari sufficienti sul federalismo fiscale, non c'era solo un calcolo dei tempi. Ma si è affacciata, per la prima volta, l'ipotesi di un possibile cambio di premiership nella coalizione di centro-destra. È questo il tabù che si sta per rompere. Ed è la ragione per cui la Lega sta prendendo tempo anche sul federalismo: si aspettano gli esiti e le carte in mano alla procura di Milano prima di rompere gli indugi.

Il fatto è che la successione di Berlusconi vuol dire anche quella di Bossi. Naturalmente la posizione del Cavaliere, date le indagini milanesi, è molto più precaria, ma nella Lega si comincia ad avvertire che una partita s'intreccia con l'altra. E anche per questo cominciano ad affiorare le diverse "correnti" che convivono sotto il sole della Padania.
Chi frequenta il Carroccio sa che c'è un'area, ribattezzata del "cerchio magico", fatta di chi vive a più stretto contatto, soprattutto fisico, con Bossi: Marco Reguzzoni, Rosi Mauro, Federico Bricolo. Un cerchio che mal sopporta, per esempio, il protagonismo di Roberto Maroni o anche di Giancarlo Giorgetti.

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Ma quello della Lega è tutto un arcipelago frastagliato che sotto la guida del Senatur riesce a tenere insieme la Lombardia e il Veneto, ma pure le diverse anime venete Zaia-Tosi. In fondo, la storia e i destini della Lega sono tanto incerti quanto quelli del Pdl, perché per entrambi il collante è una leadership carismatica: quella del Cavaliere e quella del Senatur.

Questa legislatura è ancora sotto il regno dei due leader. Ma chi guarda avanti, vede negli inciampi sul federalismo un'anteprima delle difficoltà e dello stress a cui sarà sottoposto quest'asse.

Che probabilmente vivrà ancora una sua fase con un voto anticipato e in una campagna elettorale che li riconoscerà come leader, non avendone altri pronti in panchina. Semmai, ne usciranno di nuovi se l'esito delle elezioni non dovesse benedire ancora una volta il Cavaliere e la sua coalizione.

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