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Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2011 alle ore 06:37.

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Gianfelice Rocca, vice presidente di Confindustria per l'EducationGianfelice Rocca, vice presidente di Confindustria per l'Education

Un paese bloccato, anche se c'è un potenziale forte di energie, e che rischia l'asfissia. Se l'Italia cresce poco, se i giovani restano ai margini, non trovano lavoro e non studiano, c'è un motivo principale: le politiche del merito non funzionano. «Dobbiamo passare da una società bloccata ad una società aperta, spalancare porte e finestre, diffondere il merito dovunque, senza puntare solo sui talenti come è tipico dei paesi anglosassoni», spiega Gianfelice Rocca, vice presidente di Confindustria per l'Education.

Non bastano le riforme: «Serve un cambiamento profondissimo di cultura e di valori. Che deve coinvolgere tutti, giovani, professori, insegnanti, politici, imprenditori». E proprio il mondo delle imprese è centrale come motore verso una società aperta: «Le aziende sono già proiettate verso i mercati internazionali, sono già aperte al mondo, anche se devono farlo di più. Sono ciò che di più avanzato abbiamo nel paese. E quindi gli imprenditori devono impegnarsi in uno sforzo maggiore, nel proprio ruolo di classe dirigente», continua Rocca, che sabato mattina, alle Assise di Confindustria, coordinerà il tavolo su Giovani, merito opportunità.

Merito e mercato, quindi, come spinta ad una maggiore crescita del paese?
Sì. Dobbiamo uscire da questo stallo. Senza crescita il debito pubblico finisce per essere l'asfissia del paese. Gli Stati Uniti sono usciti dalla seconda guerra mondiale con un elevatissimo rapporto debito pubblico-Pil. Solo 2 anni su 70 hanno registrato un surplus primario. Il rapporto quindi si è ridotto solo grazie alla crescita. Questa è la strada. Anche noi dobbiamo aumentare il Pil, per non rimanere per decenni asfissiati dal debito.

Giovani, education, mobilità sociale sono la molla di questo percorso?
Sono troppi i giovani che non lavorano e non studiano. C'è una mobilità sociale bloccata, con i figli che fanno lo stesso lavoro dei padri. Il passaggio nei quartili della ricchezza è difficilissimo. Invece la vitalità di una società sta proprio nel saper cogliere l'energia dei giovani: ci sono pulsioni, ma senza merito restano ingessate.

C'è anche un problema di orientamento al lavoro dei ragazzi?
Siamo al paradosso di aziende che non trovano diplomati adeguatamente formati, che parlano inglese e disposti a muoversi, e ragazzi disoccupati, che, spinti dalle famiglie e dalla scuola hanno seguito percorsi scolastici e universitari che non portano a sbocchi nel mercato del lavoro. Oggi si sta lavorando, e anche Confindustria lo sta facendo, per colmare questa separazione tra i due mondi.

La battaglia del merito va cominciata quindi dalla scuola e dall'università...
Certo. Ma purtroppo nelle scuole il concetto di merito non è ancora entrato. Ci sono molte resistenze, non si riescono a premiare né gli studenti né gli insegnanti migliori. Nelle università la riforma Gelmini ha avviato un cambiamento, ma sono pochi i fondi da distribuire in modo competitivo e non esistono ancora i meccanismi di valutazione. Sta di fatto che l'Italia è in coda nell'utilizzo di borse di studio per consentire ai giovani bravi e meno abbienti di studiare. Inoltre la decisione avviene in base alle dichiarazioni dei redditi, non sempre rispondenti alla reale situazione economica della famiglia. Non sono nemmeno sufficienti i residence universitari per favorire gli spostamenti e anche con il numero chiuso non si afferma il merito come dovrebbe, perché i test si fanno lo stesso giorno in vari posti del paese.

Lei parla spesso di merito ordinario, diffuso nella società...
Nei paesi anglosassoni si punta sui talenti, premiando un 1% della società. Questo ha eroso la classe media. Invece ci si dovrebbe concentrare sulla promozione del merito ordinario in modo da difendere una migliore distribuzione della ricchezza nella società. Tanto più che in Italia abbiamo una forte presenza di manifatturiero che ha permesso anche alla classe media di resistere.

Le riforme non bastano per cambiare passo?
No, se non accompagnate da un cambiamento culturale e di valori profondo. Siamo entrati nella moneta unica, il nostro benchmark è la Germania. Abbiamo cambiato campo di gara ma continuiamo a mantenere gli stessi atteggiamenti di quando potevamo contare sulle svalutazioni competitive. Serve un'evoluzione dei comportamenti, fare uno sforzo di coesione tra tutte le forze del paese, politica, sindacati, insegnanti, giovani e imprenditori. La posta in gioco ne vale la pena.

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