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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2012 alle ore 13:02.

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Giuseppe GuzzettiGiuseppe Guzzetti

Se si guarda all'Europa molto è stato fatto, ma è evidente che non basta data la gravità dei problemi ancora irrisolti. La crisi ha sottolineato ripetutamente e con forza che la debolezza dell'Unione Economica e Monetaria è in misura non secondaria legata alla profonda asimmetria tra la parte "monetaria" e la parte "economica", con la prima largamente completata e la seconda invece ancora in larga parte da costruire. Si tratta di un nodo non facile da sciogliere perché, come avvenuto per la politica monetaria, anche nel caso della gestione dei bilanci pubblici la soluzione deve necessariamente prevedere una cessione di sovranità decisionale a favore di istituzioni comunitarie. Senza adeguate rinunce e concessioni, senza la messa a punto di nuove forme di cooperazione tra le diverse aree economiche - e all'interno di esse tra paesi in difficoltà e paesi più solidi - il sistema economico europeo e quello mondiale non riusciranno a trovare un profilo di sviluppo sostenibile. Il mantenimento del controllo dei conti pubblici non è sufficiente; bisogna finalmente attivare strumenti per lo sviluppo.

Per quanto riguarda le banche italiane, rispetto alle altre sono molto più banche commerciali orientate al supporto della economia reale. Due dati (bilanci 2011) lo confermano in maniera chiara. Il primo è il rapporto fra il totale degli impieghi e il totale dell'attivo: in Italia ammonta al 62,2% contro il 27% in Germania, il 28,7% in Francia e contro una media negli altri cinque principali Paesi Ue (Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Olanda) del 41,8%. Segnalo, inoltre, che tra settembre 2008 e dicembre 2011 gli impieghi delle banche italiane sono cresciuti del 9,2% contro un modesto aumento del 2,1% nell'intera eurozona. Il secondo dato, che rende ancor più evidente il radicamento nell'economia reale delle banche italiane, è il rapporto fra il totale degli investimenti finanziari e il totale degli attivi: per le nostre banche è del 22,6% contro il 52,8% in Germania, il 48,2% in Francia e una media negli altri cinque principali Paesi Ue del 34,1%.

Le attuali banche italiane di fatto sono "figlie" della legge "Amato", che promosse la trasformazione degli enti creditizi pubblici in "società per azioni operanti nel settore del credito". E se la privatizzazione delle grandi banche pubbliche si è concentrata nella seconda metà degli anni Novanta, per quanto riguarda le Casse di Risparmio e le Banche dei Monti di credito su pegno il processo di trasformazione cominciò subito, per perfezionarsi anch'esso negli anni successivi e concludersi sul finire del decennio, con la legge "Ciampi".

Le Casse di Risparmio, sorte agli inizi dell'Ottocento, erano istituti nei quali convivevano due anime: quella rivolta all'esercizio del credito e quella dedicata a interventi di utilità sociale nei confronti delle comunità di riferimento. Dando attuazione ai principi recati dalla legge "Amato", esse conferirono l'azienda bancaria a una nuova apposita entità giuridica (Cassa di Risparmio Spa), per assumere la qualificazione di Ente conferente (poi denominato Fondazione) al quale furono assegnate finalità di interesse pubblico e di utilità sociale, che già erano previste negli statuti delle Casse di Risparmio.

Fino al 1994 le Fondazioni ebbero l'obbligo di mantenere il controllo della maggioranza del capitale sociale delle relative Casse, dette anche banche conferitarie. Con l'entrata in vigore della legge n. 474/94 tale obbligo fu eliminato e furono introdotti incentivi fiscali per la dismissione delle partecipazioni detenute (direttiva "Dini" dello stesso anno). Ciò favorì l'avvio di un processo di diversificazione degli assetti societari delle banche partecipate, che consentì di coniugare il raggiungimento di una dimensione adeguata delle società bancarie alle esigenze del mercato con il mantenimento del loro radicamento territoriale.

Posso dire che nel processo di dismissioni le Fondazioni tennero presente - oltre la buona remunerazione del capitale disinvestito, come era giusto per la valorizzazione dei loro patrimoni – anche l'opportunità di cominciare a creare dei "campioni" nazionali in grado di competere su un mercato che si andava sempre più internazionalizzando.

Nel 1998, con l'approvazione della legge "Ciampi" e con il successivo decreto applicativo del ‘99, l'iniziale obbligo di detenere la maggioranza del capitale sociale delle banche conferitarie fu sostituito da un obbligo opposto: la perdita da parte delle Fondazioni del controllo delle società stesse. Unica eccezione le Fondazioni di minor dimensione o con sede in regioni a statuto speciale, che poterono mantenere quote superiori al 50% grazie a una deroga introdotta nel 2003 per favorire il permanere sui territori di banche autonome rispetto ai grandi gruppi creditizi che si andavano formando: ciò in un'ottica di diversificazione della dimensione degli operatori e di servizio legato alla storia e all'economia locali.

Non stupisce, dunque, che le Fondazioni siano tuttora azioniste delle banche italiane: delle Casse di Risparmio Spa e dei gruppi nati dalle aggregazioni realizzatesi negli anni. Azionisti stabili che non hanno mai fatto mancare il necessario sostegno per la crescita e il rafforzamento delle loro partecipate, anche, e soprattutto, in frangenti complessi come quelli degli ultimi anni e ancor più dei nostri giorni. Ma di questo credo si parlerà approfonditamente domani nella sessione dei lavori specificatamente dedicata alle banche, in cui interverrà l'amico e collega, il vicepresidente dell'Acri e devo dire anche Vicepresidente vicario dell'Abi, Antonio Patuelli, che in Acri presiede il Comitato delle Società Bancarie.

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