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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2012 alle ore 13:02.

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Giuseppe GuzzettiGiuseppe Guzzetti

In questi anni ci siamo molto battuti per coltivare e affermare in Italia la cultura della sussidiarietà. Ed anche la Carta delle Fondazioni con grande forza rivendica questa terzietà delle Fondazioni rispetto allo stato e al mercato, così come lo è e deve essere per tutto il privato sociale. Una terzietà che è importante e che è difesa dalle stesse organizzazioni del non profit, che numerose hanno firmato un manifesto a sostegno delle Fondazioni, presentato a Roma nei giorni scorsi. Con il terzo settore e il volontariato il rapporto è forte e costruttivo. Hanno avuto modo di conoscerci: di verificare quanto di buono e utile per il Paese possiamo fare insieme. E la Fondazione con il Sud ne è solo l'esempio emblematico.

Le attuali difficoltà, ahimè non solo congiunturali, purtroppo alimentano la tentazione intellettuale di assimilare il ruolo delle organizzazioni del volontariato e del terzo settore – e insieme quello delle Fondazioni che ad esse forniscono un sostegno economico essenziale – a una sorta di parastato, culturalmente distante dalle dinamiche e dai processi di tipo privatistico. Con il risultato di snaturare e corrompere il ruolo di tutto il privato sociale.

Non c'è nulla di più sbagliato, perché la sussidiarietà si basa su un sistema di alleanze per l'interesse generale fra i cittadini, le imprese, i sindacati, la politica e l'amministrazione, ma non comporta la possibilità per i soggetti pubblici di sottrarsi al loro compito istituzionale di operare per la soddisfazione dei diritti e dei bisogni fondamentali della popolazione.

La sussidiarietà che ho in mente è fondata sul pluralismo dei soggetti in campo, con ruoli e responsabilità ben distinti, che siano in condizione di operare non tanto in un'ottica mutualistica che ammortizzi i deficit degli organismi pubblici deputati, quanto di sinergia e capacità di dare valore aggiunto alla qualità della vita. La condizione di base perché la sussidiarietà possa realizzarsi in programmi e azioni concrete è, infatti, la compresenza di più attori, di più competenze, di più funzioni con le relative risorse, che, auspicabilmente, siano capaci di fare rete.

In un contesto in cui i fondi nazionali per gli interventi sociali hanno perso in un anno (dal 2010 al 2011) il 63% delle risorse stanziate dallo Stato è evidente che quello che viene chiamato secondo welfare, o meglio, welfare di comunità, debba essere valorizzato e meglio definito. Welfare di comunità vuol dire mix di interventi di protezione e di investimenti sociali che prevedono anche un finanziamento non pubblico, proveniente da fondazioni, imprese, assicurazioni, fondi di categoria, organismi del terzo settore. Vuol dire, cioè, interventi finanziati, nell'interesse dei cittadini, da una vasta gamma di attori economici e sociali collegati in reti con un forte ancoraggio territoriale, ma aperti al confronto e alle collaborazioni trans-locali anche di raggio europeo. Ecco, questo è il welfare di comunità che immagino e sul cui schema di fondo abbiamo realizzato molte cose in questi anni.

A livello di sistema ho già accennato all'esempio della Fondazione con il Sud. Nata da uno storico accordo tra il mondo delle Fondazioni e quello del terzo settore e del volontariato, quest'esperienza è venuta alla luce con l'obiettivo di promuovere e potenziare proprio le strutture immateriali del Mezzogiorno: ovvero favorire lo sviluppo di reti di solidarietà, in un contesto di sussidiarietà e di responsabilità sociale, attuando forme di collaborazione e di sinergia con le diverse espressioni delle realtà locali. Abbiamo cioè deciso di investire nel "capitale sociale" del Meridione, facendo crescere la fiducia fra i cittadini e tra cittadini e istituzioni. E solo Iddio sa quanto ce ne sia bisogno in questo momento, in cui dall'impegno di ognuno, delle organizzazioni della società civile, in alleanza con lo Stato, come non mai dipende il contrasto a un'illegalità che sempre più lede non solo la vita economica dei territori, ma incide sull'esistenza stessa dei nostri giovani, compromettendone il futuro, quando non la vita stessa.
La Fondazione con il Sud – e voglio qui cogliere l'occasione per riconoscere che il merito va certamente anche a Savino Pezzotta, che ha avviato questa esperienza, e ora a Carlo Borgomeo, attuale presidente, che la conduce con passione e lungimiranza – è un'iniziativa in cui tutte le nostre Fondazioni credono moltissimo. Dotata di un patrimonio iniziale di circa 315 milioni di euro, al quale le Fondazioni aderenti hanno aggiunto negli anni oltre 149 milioni di euro da destinare alle erogazioni, nel suo primo quinquennio di attività ha erogato complessivamente più di 75 milioni di euro, mentre per altrettante risorse sono state avviate le procedure di assegnazione. Queste risorse sono servite per attivare iniziative volte a combattere la dispersione scolastica, contrastare la "fuga di cervelli" dal Mezzogiorno, favorire l'accoglienza e l'integrazione degli immigrati extracomunitari, nonché creare le prime fondazioni di comunità del Mezzogiorno.

Un altro progetto, importantissimo, e al quale tengo molto, è quello dell'housing sociale, che sta finalmente diventando una cosa concreta su scala nazionale. Grazie alla sperimentazione positiva di singole Fondazioni in questo campo, quattro anni fa l'Acri ha potuto offrire al Governo la proposta di un piano nazionale di edilizia sociale, che realizzerà 20.000 alloggi da dare in locazione a canoni ridotti del 40-50% a giovani coppie, studenti, lavoratori con redditi bassi, immigrati regolari, famiglie monogenitoriali, anziani. Ovvero a quelle categorie sociali che non rientrano nei parametri per l'assegnazione di case popolari, ma che non sono nemmeno in grado di accedere a un'abitazione a prezzi di mercato.

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