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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2012 alle ore 07:30.

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La stessa faccia squadrata, la stessa concentrazione militaresca: guardate i tuffatori e i ginnasti cinesi. Fotocopia l'uno dell'altro, la creazione di una macchina che sforna ragazzini come bulloni. Avrebbero l'età – 15/18 anni – per fare i bulli, ma la fame gli impone regole durissime.

E hanno tutti la stessa medaglia al collo, quella d'oro. A Pechino 2008 i tuffatori ne hanno vinte sette su otto, le tuffatrici otto su otto, ai Mondiali di Shanghai 2011 dieci su dieci. Ci sono solo loro: macchine senza sorriso, automi senza eroismo. È il popolo che li guida, sono l'ideologia fatta sport.
Tutto inizia nel 2001 quando Pechino vince la candidatura per i Giochi del 2008 e il ministero della cultura e dello sport lancia il programma Winning pride at Olympics per scalare il medagliere olimpico. Da quel momento sono state create oltre 3mila scuole di Stato per tuffi e ginnastica. Le frequentano migliaia e migliaia di bambini: piuttosto che fame e povertà, meglio disciplina e sport. Quella severità può dare gloria e qualche agio altrimenti solo sognato.

A ogni manifestazione la Cina porta nomi nuovi e vincenti. Due su tutti, il tuffatore Qiu Bo e la sua collega Guo Jingjing. Di lui, 19 anni, non si sa quasi nulla: ha stravinto a Shanghai nella piattaforma da 10 metri e nel sincro, come un coltello che affila l'acqua. A Londra troverà un idolo di casa, Tom Daley, ma non se ne cura: «Io sono il mio più forte rivale ». La principessa dei tuffi, 31 anni, 17 titoli mondiali e 4 ori olimpici, ha deciso di chiudere perché «ci sono decine e decine di talenti nella squadra cinese».
Prima che talenti, corpi che vivono a testa ingiù otto ore al giorno in nome della Repubblica popolare cinese. E in nome di un piatto di riso ogni giorno.

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