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Questo articolo è stato pubblicato il 13 luglio 2010 alle ore 08:02.
JOHANNESBURG - Sono tre, e già questa è perfezione. Ma la perfezione non si accontenta, così hanno cercato - e trovato - altro, fino ad arrampicarsi sul tetto del mondo e diventare cavalieri invincibili. Chissà quanto tempo passerà prima che qualcuno faccia il solletico a questa perfezione. Carles Puyol, Xavi e Andrés Iniesta sono la colonna vertebrale del Barcellona e della Spagna, sono il cuore di un progetto di calcio visionario e bellissimo. Hanno vinto tutto dal 2008 a oggi: Europeo con la Roja dopo 44 anni; sei titoli nel Barcellona nel 2009 (campionato, Coppa del Re, Champions League, Supercoppa di Spagna, Supercoppa europea e Intercontinentale); ora il Mondiale. Nella storia e in così pochi mesi nessuno ha vinto tanto. Domenica sera, al Soccer City, quando il capitano Casillas ha alzato la coppa, loro, quasi sorpresi per tanta luce, erano felici ma appena scostati. Guardavano gli altri far festa, conoscendo bene i turbamenti della gioia. (Guarda il percorso del mondiale)
Carles Puyol. Per uno che ha scritto il libro Mi partido a ricordo del padre morto in un incidente sul lavoro, tutte sono partite della vita. Tutte sono una finale: l'ha detto della gara con l'Inter in Champions, l'ha ripetuto dopo la sconfitta con la Svizzera. Dentro gli rugge uno spirito guerriero che i tifosi amano, oltre ai suoi natali: ha 32 anni, è catalano, gioca nel Barça ed è capitano dei Blaugrana dal 2003. Bandiera è riduttivo. Lui, Tarzan, domina la squadra dal cuore della difesa, è aggressivo e imperioso come nel colpo di testa con il quale ha trafitto la Germania. È l'uomo che garantisce il patto di sangue tra i giocatori del Real Madrid e del Barcellona in Nazionale, è il Paolo Maldini della Catalogna che nella finale di Champions 2009 contro il Manchester controlla Rooney e sfiora il 3-0 che avrebbe meritato. Prima di partire per il Sudafrica si è fatto un tatuaggio tibetano sul braccio sinistro: «Il potere è nella mente. Chi è forte sopporta tutto». Perché lui, la forza, la cerca nella fattoria dei genitori, lontano dalla movida. Le pecore e le distese bruciate dal sole sono il suo doping.
Xavi. L'ha ripetuto anche prima della finale con l'Olanda: «Ogni notte, prima di addormentarmi penso che dobbiamo vincere il Mondiale. Questo gruppo se lo merita». Soprattutto perché certi treni non passano più. Xavi ha vinto tutto ma ha trent'anni e chissà se ci arriverà a Brasile 2014. È il cavaliere silenzioso del biennio d'oro del calcio spagnolo: ha iniziato ad alzare coppe a 18 anni con il Mondiale Under 20: allora nacque il progetto che oggi guarda il mondo dall'alto in basso, sia come club sia come Nazionale. Una generazione benedetta, che ha trovato forza nell'amicizia. Per lui Puyol è un fratello. Catalani entrambi, da tredici anni nello stesso club: «Giocando in difesa, vede tutto il campo. Continua a urlarmi: a destra, a sinistra, di qui, di là, attento Xavi, aiuta. A volte vinciamo 3-0 e urla lo stesso. Così gli dico: «Che succede, Puyi? Stai un po' zitto!». Il piccolo genio ha un cervello a forma di campo di calcio, ne conosce ogni angolo, lo ricama con passaggi euclidei. Lui, il pasador perfetto, zero gossip e tante geometrie, del pallone dice: «Devi custodirlo come un figlio». In Sudafrica l'ha fatto.