Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2011 alle ore 09:06.

My24
Parmalat (olycom)Parmalat (olycom)

La Parmalat di Calisto Tanzi era una conglomerata a controllo familiare drogata dalla finanza occulta e ammalata dai margini decrescenti del latte, ma dalla rilevante integrazione industriale con la filiera italiana, dove acquistava il grosso della materia prima.

La Parmalat di Enrico Bondi è una public company dalla cassa robusta (1,4 miliardi di euro), che ha una notevole capacità di diversificare i prodotti (l'utile di gestione industriale nel 2010 si è attestato a 215 milioni di euro, con un aumento del 68% rispetto al 2009) e che, nel rapporto con gli uomini e le donne delle stalle della Bassa, si comporta come una multinazionale.
Adesso il latte base è una commodity da acquistare ai prezzi minori possibili e non importa dove il contratto venga siglato: a Reggiolo o a Cremona, in Romania o in Baviera. I ricavi sono pari a 3,9 miliardi di euro (963 milioni in Italia). Gli addetti sono 13.930, 2.130 dei quali nel nostro paese. Il margine operativo lordo complessivo è dell'8,8%, in Italia è di oltre un punto maggiore (9,9%). Un risultato ottenibile con il mix di efficienza e di contenimento dei costi dell'aretino caro a Mediobanca che già aveva ristrutturato la Ferfin, la finanziaria dei Ferruzzi.
Oggi l'azienda di Collecchio ha quattro marchi: Parmalat, Santal, Chef e Elena. Con questi brand controlla il 34,8% del mercato del latte uht, il 25,6% del latte pastorizzato, il 5,7% degli yogurt e il 15% dei succhi di frutta. Dietro a questi numeri, che sono stati realizzati con strategie commerciali aggressive fondate sulla segmentazione dei prezzi finali (uno yogurt è uno yogurt, ma se è ad alta digeribilità la mamma al supermercato è disposta a spendere di più), c'è una pratica fondata su una razionalità manageriale estrema: nessuna diversificazione, tutto core business, altro che turismo o salvataggi richiesti dalla politica e dalle banche come ai tempi di Tanzi.

Il Bondi ristrutturatore, a Parma, cambia radicalmente il modello gestionale. Una metamorfosi che si coglie bene nel rapporto con la filiera, che resta centrale in un mercato del lattiero-caseario negli ultimi anni stabile a 15 miliardi di euro di fatturato aggregato e in grado di produrre 106 milioni di quintali di latte (l'Italia è autosufficiente per il 70%, il 30% lo importiamo dall'estero). «Ai tempi di Tanzi, che nessuno rimpiange per il disastro che ha fatto con il crac del 2003 - dice Antonio Piva, presidente della Confagricoltura di Cremona -, c'era più collaborazione con il tessuto produttivo. Tanzi era un industriale che certo non si poneva il problema di fare ricchi i produttori. Però l'azienda acquistava un buon 60% del latte in Italia. Il resto all'estero. L'attuale gestione ha perlomeno ribaltato le proporzioni fra l'Italia, ormai minoritaria e non superiore al 40%, e l'estero. Il nocciolo duro italiano resta collegato alla Centrale del Latte di Roma, di cui Parmalat ha il 75% del capitale». La stima di Piva, che si muove nella provincia italiana con la più alta concentrazione di stalle (il 40% del latte è peraltro lombardo), fa tornare alla mente le parole del direttore delle operazioni dell'attuale Parmalat, Antonio Vanoli, che alla domanda di un analista «dove comperate il latte, in Italia o all'estero?», ha risposto che questa informazione era sotto vincolo di riservatezza.

Comunque sia, questa propensione a comperare il latte all'estero è anche l'effetto della rifocalizzazione. «Bondi - chiarisce Roberto Fanfani, docente di economia agraria all'università di Bologna - è tornato ai succhi di frutta e soprattutto al latte a lunga conservazione, per il quale la provenienza non è importante. A Collecchio hanno le tecnologie per farlo bene. È chiaro però che così la filiera non tende a integrarsi, ma piuttosto a sfilacciarsi». Con l'effetto, soltanto in apparenza paradossale, che i produttori di latte intorno a Collecchio non conferiscono il loro latte alla Parmalat, ma ai caseifici privati e alle cooperative che con esso producono il parmigiano reggiano. «Sulle 2mila aziende associate - afferma Lorenzo Bonazzi, presidente di Confagricoltura Parma - si contano sulle dita di una mano quelle che vendono il loro prodotto a Collecchio». Una scelta dovuta anche alle quotazioni: «Per il parmigiano reggiano ti pagano il latte 70/80 centesimi al litro, il doppio rispetto a quello che finisce nei cartocci e nelle bottiglie di vetro», chiarisce Bonazzi.
Negli anni Novanta i grandi produttori di latte andavano a casa Tanzi il sabato pomeriggio, accolti nel salotto in rigoroso ordine geografico (prima i parmensi, quindi i piacentini, poi gli altri), e insieme al Cavalier Calisto fissavano il prezzo. Nei primi anni Duemila, mentre il carcinoma della diversificazione nel calcio e nel turismo e il virus della falsificazione dei conti si propagavano ogni giorno di più nel corpaccione di Parmalat, il clima era già cambiato: Collecchio, in perdurante crisi di liquidità, non pagava le fatture e i titolari delle stalle spesso citavano la società. «Adesso - aggiunge Bonazzi - il metodo di acquisto è cambiato: i funzionari di Parmalat praticano prezzi differenziati, a seconda del contenuto proteico e del grasso contenuto nel latte».

In un sistema come quello italiano, dove la Parma dei Barilla e dell'Autorità sulla sicurezza alimentare, del parmigiano e del culatello rischia di perdere l'italianità di Parmalat, il problema non è soltanto politico-simbolico. È anche una questione di sopravvivenza dell'intero sistema. E non soltanto per la crescente predisposizione di Collecchio a procurarsi il latte all'estero. «Il timore - dice Piva - è che, con Lactalis padrona di Parmalat, si arrivi a un monopolio che strozzerebbe i produttori». Italatte, la società italiana di Lactalis, ha firmato con Coldiretti e con la Cia un accordo interprofessionale che fissa per la Lombardia, cuore della nostra produzione nazionale, il prezzo al litro fra i 39 e i 40 centesimi. Oggi il costo industriale di un litro di latte è di 41 centesimi. Una specie di auto-dumping. «Cosa succederebbe se non si potesse nemmeno contare sulla presenza di più di un compratore?».

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi