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Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2011 alle ore 08:13.
Sono tempi che non inducono a pensare un po' oltre, a un altrove. La dittatura dello spread e della Borsa ci è entrata dentro. Attraversa non solo la politica, ma pervade territori e microcosmi. Coraggiosa l'iniziativa di Symbola-Unioncamere e Assolombarda di presentare il rapporto GreenItaly sostenendo che "L'economia verde sfida la crisi". Green economy (le energie rinnovabili, la gestione dei rifiuti, la consulenza ambientale) è la scommessa di riportare sui binari una locomotiva del capitalismo che minaccia di deragliare. La green economy è progressiva, non necessariamente progressista. È sussunzione del limite ambientale, tentativo di superare la frattura tra sviluppo e natura come nuovo terreno storico di accumulazione originaria e di nuovo allargamento del mercato e nuovi consumi. Non è la decrescita ma l'altra faccia della crescita come sviluppo sostenibile. Certo l'eterogeneità dei suoi significati ricomprende anche prospettive culturali di taglio etico-umanistico, dal consumo consapevole fino al "borghigianesimo" italico e alla "decrescita felice".
Sul tempo lungo della storia è l'affermazione, orgogliosa, della capacità del capitalismo di ristrutturarsi per superare la crisi, non la prima avvisaglia del suo crollo futuro. È in primo luogo una narrazione anti-declinista e ipermodernista depurata da ogni idea di supremazia dell'occidente. Sul tempo medio dei cicli di sviluppo dei capitalismi nazionali significa fiducia nella possibilità di innescare una nuova fase di stabilità sociale ed economica che eviti strappi e volatilità di un turbocapitalismo vissuto fino ad oggi di bolle speculative. La green economy è dunque anzitutto una narrazione dell'uscita che non può essere solo "economy" ma deve produrre anche un'idea di green society fatta di nuovi valori e stili di vita. Possibile soprattutto in Italia dove, prima che altrove, il capitalismo di territorio è cresciuto storicamente coniugando economia e società.
D'altronde green economy è anche la tendenza delle città a farsi smart cities, città sostenibili apprezzate dai nuovi ceti medi internazionali, metropoli riflessive e intelligenti con la capacità delle proprie élite di mettere al centro di un nuovo urbanesimo la qualità ambientale della vita.
La ricerca di Unioncamere e Symbola ci mostra soprattutto come nel nostro Paese sia in atto un movimento complessivo del sistema produttivo, dalla manifattura alle produzioni biologiche, dalle public utilities, dall'edilizia ai servizi, in cui sono i territori con le loro vocazioni produttive, le loro identità in trasformazione e le loro reti di saperi che stanno interpretando la green economy. Con un'evoluzione culturale del capitalismo molecolare, solo che si pensi a quanta diffidenza suscitava fino a non molti anni fa l'idea della riconversione ambientale del capitalismo manifatturiero, derubricata a costo aggiuntivo. Il 23,9% delle imprese italiane ha realizzato negli ultimi tre anni o realizzerà entro quest'anno, investimenti in prodotti e tecnologie di risparmio energetico o minor impatto ambientale. Tra le Pmi (20-499 dipendenti) al passaggio 2010-2011 la quota di investimenti green raddoppia. Prevale largamente, infatti, l'esigenza di ridurre i consumi energetici e innovare il processo produttivo mentre siamo ancora lontani dall'innovazione radicale di prodotto. Un movimento che ha le sue punte alte nella meccanica che si fa meccatronica, nella media impresa globalizzata ed esportatrice e negli assi territoriali pedemontano e emiliano e che diventa trasversale e unificante tra Nord e Sud se si allarga l'analisi anche ai servizi. Green economy significa anche, potenzialmente, adattamento del mercato del lavoro italiano alla società e al lavoro della conoscenza. Oltre il 30% delle imprese "green" assumerà nel corso dell'anno una quota pari al 41% delle assunzioni complessivamente programmate. E soprattutto assumerà per il 29% figure high-skill e per il 15% laureati. Numeri di speranza per una disoccupazione giovanile del 30% e per lavoratori della conoscenza con Partita iva e senza rappresentanza.
Tracce di metamorfosi del capitalismo molecolare e dei saperi diffusi destinate a rimanere solo tali senza un capitalismo delle reti fatto non solo dei due colossi energetici nazionali, Enel e Eni, quanto di quel tessuto di multi-utilities eredi delle municipalizzate che aggregate e ristrutturate rappresentano il secondo pilastro territoriale di una green economy che abbia ambizioni sistemiche. Basti l'esempio delle smart grid, le reti distributive intelligenti; oppure i primi passi verso la creazione di una rete di alimentazione per l'auto elettrica, prospettiva fondamentale per la qualità della vita delle grandi aree metropolitane. Siamo al solito nodo. Basti pensare allo iato tra finanza e investimenti nell'economia reale.
La connessione tra big players del capitalismo delle reti e filiere del capitalismo manifatturiero è la strada per il paese, la via italiana alla green economy. La green economy è una visione che non si arrende all'idea che capitalismo delle Pmi territorializzato e big players nel nostro paese siano destinati a non comunicare. Partendo in primo luogo dalle risorse di un capitalismo delle reti che ha natura territorializzata perché nato dalla matrice del municipalismo ma che oggi nelle sue eccellenze tende ad aggregarsi in una dimensione di area vasta (A2a, Hera, Acea, ecc.). Se intendono essere elemento di nuova civilizzazione, non solo dispositivo di mercato, i soggetti della green economy dai big player alle Pmi devono saper produrre saperi e legami sociali oltre che modernizzazione di mercato. Contaminando e diffondendo eterotopia possibile per i miei microcosmi. Vedremo…
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