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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2012 alle ore 08:55.

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Una veduta del progetto del rigassificatore elaborato da Brindisi Lng (gruppo British Gas)Una veduta del progetto del rigassificatore elaborato da Brindisi Lng (gruppo British Gas)

British gas getta la spunga: dopo 11 anni di paralisi sul fronte delle autorizzazioni e dei permessi, attesi inutilmente dagli inglesi e mai concessi dalle autorità italiane, la compagnia energetica britannica rinuncia al progetto del rigassificatore di Brindisi. «Oggi (ieri per chi legge, ndr) – annuncia al Sole 24 Ore il presidente e amministratore delegato di British gas Italia, Luca Manzella – abbiamo avviato le procedure per il collocamento in mobilità dei nostri lavoratori presenti a Brindisi. In tutto una ventina di dipendenti.

La casa madre, delusa e scoraggiata dal prolungarsi all'infinito del braccio di ferro con le autorità italiane e nonostante i 250 milioni di euro già spesi per il progetto pugliese, ha deciso di riconsiderare dalle fondamenta la fattibilità dell'investimento». Il risulato è che tutte le attività di British gas su Brindisi cessano a partire da oggi.

Un colpo durissimo sia per l'economia del territorio, visto che il rigassificatore avrebbe procurato nei quattro anni necessari alla sua realizzazione un migliaio di posti di lavoro, sia all'immagine del sistema Paese, che si mostra incapace di attarre i grandi investimenti stranieri.
«Noi pensiamo – continua Manzella, in carica dallo scorso 1° febbraio – che il governo Monti, così come si rivolge agli investitori finanziari, dovrebbe inviare messaggi altrettanto chiari e rassicuranti anche agli investitori industriali, che hanno un enorme bisogno di certezze». Proprio quelle che Britsh gas non ha mai ottenuto: la richiesta al Governo italiano di poter realizzare a Brindisi l'impianto di rigassificazione risale al novembre 2001. Il terminal, il cui investimento si aggira sugli 800 milioni di euro, è progetto per una capacità di sei milioni di tonnellate/anno di gas naturale liquefatto (gnl), corrispondenti a otto miliardi di metri cubi l'anno di gas naturale immesso in rete, pari al 10% circa del consumo nazionale. E invece non se ne farà più niente. Sfuma tutto.

Ma perché si è arrivati a tanto? «Perché – risponde Manzella – dopo la nuova Via (valutazione d'impatto ambienatle), concessa con decreto nel luglio del 2010, ci eravamo illusi che nel giro di 200 giorni tutto si sarebbe appianato, i permesi sarebbero finalmente arrivati e avremmo potuto avviare i lavori. Di giorni invece ne sono passati 600, il processo autorizzativo è bloccato, gli enti locali continuano la loro strenua opposizione al progetto depositando una raffica di ricorsi amministrativi contro la nuova Via mentre dal Governo centrale e in particolare dal ministero dello Sviluppo – sottolinea Manzella – non è mai arrivata la convocazione per la conferenza dei servizi decisiva. Non si può pensare che una grande multinazionale blocchi un progetto per oltre 11 anni. A tutto c'è un limite».

A irritare ancora di più gli investitori inglesi è il confronto con quanto è accaduto negli stessi anni in Galles. Il rigassificatore gallese di British gas e quello di Brindisi possono essere definiti come "impianti gemelli", in quanto entrambe le strutture hanno una capacità annua di 8 miliardi di metri cubi e i serbatoi una capacità pari a 160mila metri cubi. L'iter autorizzativo è scattato, per entrambi i terminal, a inizio anni Duemila. Risultato: in soli cinque anni il progetto gallese è stato validato, l'impianto è stato costruito e entrato in funzione. L'area sulla quale sorge è importante dal punto di vista naturalistico ma ciò nonostante non ci sono stati problemi in nessuna fase, né progettuale né realizzativa.

Esattamente il contrario da quanto è avvenuto in Puglia. Dove peraltro la società inglese ha investito 250 milioni di euro senza riuscire a fare altro che costruire la spianata sulla quale dovrà sorgere l'impianto.
E ora che succederà? «Come detto – ribadisce Manzella – tutte le attività di British gas su Brindisi vengono chiuse. Ma è il Paese che dovrebbe interrogarsi perché, sul piano internazionale, si ha la netta percezione che investire in Italia sia rischioso. I veti locali e l'immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell'Italia».

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