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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2010 alle ore 13:52.
PARIGI - «Adrianaaaaaaaaa!». Raymond Domenech alle domande dei giornalisti nei fine partita evoca sempre l'immagine di Rocky Balboa (senza il volto tumefatto e gli occhi chiusi) alla ricerca della moglie e completamente disinteressato alla realtà che in quel momento lo acclama o lo denigra. In fondo la dichiarazione di matrimonio in diretta tv alla compagna Estelle Denis, subito dopo l'eliminazione shock agli europei del 2008, è la moderna versione del grido disperato di Sylvester Stallone. Il nodo della cravatta è sempre allentato, come se fosse uscito da un matrimonio dove ha mangiato troppo, e lo sguardo è il più delle volte allucinato, fisso sulle telecamere ma senza guardarle.
Se l'ex allenatore dei Bleus fosse uno studente, diremmo che è uno che è andato spesso fuori tema, coi fatti e con le parole. Nell'allucinante sequenza che ha portato alla disfatta dei mondiali non si è mai capito da che parte fosse: con i giocatori, contro i giocatori, con la federazione, con se stesso o contro se stesso. Eppure è durato a lungo, probabilmente più a lungo – sei anni - di qualsiasi altro selezionatore della nazionale di calcio francese. Dicono che abbia sempre lasciato fare i suoi campioni più capricciosi, in allenamento, negli spogliatoi e sul campo, e questo spiegherebbe come mai, all'indomani del fiasco agli europei 2008, nessuna voce o mugugno si levò dalla squadra per reclamarne le dimissioni. Vivi e lascia vivere. Soltanto che l'umiliazione sudafricana, con il corollario del vaffa indirizzatogli da Anelka e l'ammutinamento solidale agli allenamenti hanno fatto degenerare lo psicodramma nazionale in affare di stato.
Se fosse stato il Sarkozy dei bei tempi, onnipresente, iperattivo e ipermediatico, lo stesso presidente sarebbe andato sul posto a tirare le orecchie a tutto il carrozzone. Invece, direttamente dalla panchina della politica, è toccato al ministro dello Sport Roselyne Bachelot aggiungere enfasi interventista a una situazione già ampiamente surreale. Il presidio della politica, tentazione permanente della cultura francese, stavolta non ha funzionato. E anche se il ministro ha loro detto, in sostanza, «vergognatevi!» e i giocatori a lovo volta l'hanno guardata negli occhi, hanno pianto e l'hanno applaudita alla vigilia della Waterloo sudafricana, tanta emotività e contrizione di facciata non sono servite a niente. Come ha detto il ministro Bachelot, con uno sguardo non meno allucinato di quello di Domenech, della squadra nazionale francese «resta ora un campo di macerie».