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Questo articolo è stato pubblicato il 08 agosto 2012 alle ore 14:48.

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Forse l'ultima immagine che verrà ricordata della conferenza stampa che ha tenuto stamane Alex Schwazer per spiegare le sue ragioni in merito alla nota vicenda di positività al doping rappresenta l'ennesimo errore di una storia marcia e dannatissima. La manager dell'atleta, al suo fianco davanti ai flash dei fotografi e a uno schieramento di giornalisti da grande evento, gli ricorda a più riprese di ringraziare gli sponsor. Che l'hanno sostenuto fin qui e che, pare, non abbiano alcuna intenzione di abbandonarlo. Schwazer chiede scusa anche a loro. Come ha fatto negli ultimi due giorni a chiunque si presentasse al suo cospetto per chiedergli spiegazioni di un gesto che ha, di fatto, scritto la parola fine su una carriera già brillante e che avrebbe potuto esserlo anche di più.
Il 28enne maratoneta di Vipiteno, medaglia d'oro nella 50 km di marcia a Pechino, ha gli occhi gonfi di pianto. Inizia a parlare con la voce rotta dalle lacrime e con lo sguardo rivolto verso il basso. Come se temesse di incrociare lo sguardo accusatorio dei rappresentanti della stampa, che ora è evidentemente pronta a sparare a zero su di lui. "Perché l'ho fatto? Perché ero disperato – dice Schwazer -. Perché volevo fare bene anche a Londra e sentivo di non essere pronto per arrivare a medaglia. Volevo vincere tutto, anche la 20 km. Ed ero convinto di non essere all'altezza delle aspettative di chi mi aspettava al varco per giudicarmi. Ancora una volta, come hanno sempre fatto quando qualcosa non andava per il verso giusto. Ecco, volevo vincere tutto e alla fine ho perso tutto".
Vincere, sempre e comunque. Per dimostrare di essere il numero 1, di meritare i complimenti e le belle parole degli addetti ai lavori, ma pure della famiglia, degli amici più stretti. "Su di me è stato scritto di tutto. Che avevo per la testa gli sponsor, che non prestavo più la stessa attenzione a quello che stavo facendo. Ti fai il mazzo per 10 mesi e poi basta una gara che va male e tutti a darti contro. Bisogna aver provato queste cose, per sapere che non è facile reggere a una simile tensione. Se non fossi riuscito ad arrivare a medaglia mi avrebbero detto che ero un fallito. No, non bastava dire ‘grazie a tutti, io lascio'. Quando diventi un campione olimpico a 23 anni, su di te si concentra una grande attenzione da parte di tutti. Non è facile mollare tutto, ve lo assicuro".
A chi gli chiede di raccontare nel dettaglio i passaggi chiave della sua scelta, Alex risponde con fermezza: "Ho fatto tutto da solo, dovete credermi. Ho fatto un errore, ho sbagliato. E cerco nell'errore di essere il più onesto possibile. Non chiedo riduzioni di pena, credo che sia giusto che per errori di questo tipo la squalifica debba essere a vita. Sono una persona che ha sbagliato, giudicatemi per questo, non per altro. Ecco come sono andate le cose. Sono andato in Turchia senza dire niente a nessuno. E con 1500 euro ho comprato l'Epo. Senza aver alcun tipo di problema da parte del farmacista a cui mi sono rivolto. Mi ero informato su Internet, trovando tutto ciò che mi sarebbe stato utile sapere. Ma non l'ho detto a nessuno, non volevo deludere le persone che hanno sempre creduto in me".
Poi, l'inizio della "cura": "Lo scorso 13 luglio ho passato il controllo antidoping, dopo di che ho iniziato a farmi le iniezioni. Sono state 3 settimane terribili. Aspettavo che la mia fidanzata (ndr, la plurimedegliata pattinatrice Carolina Kostner) uscisse di casa, per andare in bagno e iniettarmi l'Epo. Le dicevo che il flacone in frigo era un farmaco, non volevo che venisse coinvolta dalla mia scelta. Lei non c'entra nulla. Mi è sempre stata vicina, anche negli ultimi giorni. E' una persona fantastica, non merita tutto questo".
La paura dei controlli, la tensione per gestire una decisione che sapeva avrebbe potuto costargli tantissimo. "Da quando ho iniziato a doparmi, dormivo pochissimo. Mi alzavo in piena notte con la paura che arrivassero i controlli. E non stavo bene. Perché non sono un medico e magari ho sbagliato anche qualcosa. Sono state settimane d'inferno, non vedevo l'ora che tutto finisse. E lo prova il fatto che il 30 luglio, quando il controllo è davvero arrivato, non ho detto a mia madre di non aprire la porta per dire che non ero in casa. Potevo farlo. Puoi saltare 2 controlli all'anno senza alcun problema. Invece, le ho detto di aprire. Sapevo che mi avrebbero trovato positivo, ma non mi interessava più nulla. Non ce la facevo più a reggere la situazione".
Ma possibile che nessuno sapesse niente e che, soprattutto, nessuno l'abbia aiutato a procurarsi l'Epo? Il pensiero va al dottor Michele Ferrari, che poche settimane fa, al termine di un lungo percorso di accuse e di sospetti, è stato inibito a vita dall'agenzia antidoping degli Stati Uniti. Il nome di Ferrari era conosciuto nell'ambiente del ciclismo, ma non solo. Per molti, era "il dottor doping". Eppure, Schwazer lo contattò nel 2009. "Sapevo chi fosse, ma nelle poche volte che l'ho incontrato abbiamo parlato solto ed esclusivamente di tabelle di allenamento. Lui è un grande preparatore e pensavo potesse darmi una mano a lavorare nel modo migliore possibile. Per dare un senso ai miei sforzi, non avevo altra strada. A chi mi sarei dovuto rivolgere? Chi sono gli altri allenatori che avrebbero potuto darmi una mano? La Federazione? Lasciamo perdere. Il presidente Arese ieri ha detto bugie sul mio conto. Poi, basta chiedere agli atleti. Altro che aiuto. Ripeto, Ferrari non c'entra nulla. Ho fatto tutto da solo".

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