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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2010 alle ore 19:39.
Sono in molti a scommettere che la Cina sarà il prossimo leader mondiale del green business. Infatti, seppur la fotografia attuale del miracolo economico cinese sia tutt'altro che verde - le ciminiere fumanti e i terreni inquinati di Shenzhen piuttosto che di Guangzhou sono il biglietto da visita stampato sulla maggioranza dei prodotti Made in China che invadono i nostri mercati - gli analisti e gli esperti dell'industria sono concordi nel ritenere "più che promettenti" i significativi passi in avanti che Pechino ha compiuto nella trasformazione del suo arrembante capitalismo di stato.
Gli indici di una Cina verde sono molti, dal business environment che attrae sempre più capitali di ventura a scommettere su nuove tecnologie a basso impatto ambientale alla diffusione a macchia d'olio su tutto il territorio cinese di progetti d'impianti per la produzione di energia rinnovabile - principalmente fotovoltaico, eolico e idroelettrico - di scale talmente grandi da non poter dubitare della serietà dell'impegno preso dal governo cinese.
Ma i mille risvolti della terra promessa che la green economy rappresenta per economisti e scienziati sociali sono molti e molto vari. L'enigma si eleva al quadrato poi quando si parla di green economy e Cina: sono infatti questi i due argomenti più attuali e più incerti dell'economia mondiale. Per quanto assodato possa sembrare che la Cina giocherà sempre più un ruolo decisivo nel mondo appiattito dalla globalizzazione e che il modello di sviluppo e crescita economica non possa più prescindere dall'intraprendere un percorso sempre più verde, rimangono ancora incertezze riguardo a come e quando tutto ciò avverrà.
Per questo, studiare lo stato della green economy nel Paese di Mezzo può essere utile per prefigurare possibili scenari futuri di un Mondo in cui Cina e green business siano solide realtà.
A partire soprattutto dalla massiccia e altisonante Legge per le Energie Rinnovabili del 2005, nessun operatore del settore può prescindere dalla Cina quando si parla di energie rinnovabili. Infatti, se ancora all'inizio del decennio pochi e isolati erano gli appezzamenti di terreno sottratti all'agricoltura per sperimentare la produzione di energia pulita, nel 2010 i lanci d'agenzia quasi mensilmente riportano la progettazione di nuovi impianti eolici nella Mongolia interna piuttosto che nuovi campi fotovoltaici nell'entroterra, ai piedi dell'altipiano tibetano. Ripetutamente Pechino, principalmente attraverso la strategica Commissione Nazionale per le Riforme e lo Sviluppo (la famosa Ndrc), ha con vigore affermato come la Cina non possa prescindere dall'energia pulita: senza di essa infatti né la crescente domanda interna della popolazione né la continua necessità del sistema nazionale industriale per mantenere vivo il miracolo economico, potrebbero essere soddisfatte a lungo e senza stravolgere l'ambiente circostante.
Stando all'ultimo Stern report, nell'ultimo pacchetto di stimolo la Cina ha riservato per il clean tech il 79% in più di quanto messo sul piatto da Washington: 221 dei totali 586 milioni di dollari di tale pacchetto sono state legate ad iniziative verdi. Anche e soprattutto grazie a questo, la Cina è diventata il primo mercato al mondo per le clean technologies, stimato tra i 500 bilioni e 1 trilione di dollari annui (dal green tech report 2009).
Michele Bina, managing director di Relisuco Renewables Ltd., società di consulenza italiana con base ad Hong Kong, con anni di esperienza nel settore del fotovoltaico in Asia, non può non riconoscere i meriti di Pechino- a partire da decisionismo e lungimiranza- nel intraprendere l'ardua via dell'energia pulita in un paese il cui miracolo economico è ancora per il 75% alimentato con il carbone, il più inquinante quanto il meno costoso combustibile fossile. "La Cina presenta caratteristiche, a partire dalle dimensioni geografiche e demografiche, grandi disponibilità di capitali per le nuove tecnologie, fino all' immenso bacino di manodopera e la capacità ormai di produrre prodotti con un ottimo rapporto qualità/prezzo, che la rendono inevitabilmente un pretendente serio alla leadership green nel mondo globalizzato."
L'industria del fotovoltaico cinese infatti, praticamente inesistente o quasi all'inizio del 2000, è cresciuta ad un tasso annuo doppio rispetto ai paesi più avanzati nel settore- un 70% contro il 35% della Germania, Giappone e Stati Uniti- a tal punto da diventare, già da qualche anno, il maggiore produttore al mondo di pannelli fotovoltaici. La capacità cinese di aggredire i mercati internazionali con prodotti efficaci a prezzi estremamente competitivi ha contribuito anche in questo caso all'esplosione dell'industria solare: non a caso, ancora il 95% della produzione annua è destinata ad essere installata in quei paesi-vedi principalmente quelli europei- dove sono presenti politiche tese a favorirne la diffusione.
Nonostante l'incredibile affermazione in poco più di una decade, la Cina è consapevole di come sia necessario compiere un altro salto di qualità per diventare leader mondiale del settore: passare dall'essere la fabbrica di produzione del mondo (dai pannelli fotovoltaici alle turbine idroelettriche) alla fabbrica di idee del mondo. Il mondo delle rinnovabile infatti, lungi dall'avere acquisito uno standard dominante, è ancora alla ricerca di tecnologie che abbattano i costi fino al raggiungimento della cosidetta grid parity. Pechino sa dunque che è necessario stimolare, con l'attrazione di capitale e ricerca dai paesi più avanzati, un ambiente di business favorevole alle nuove tecnologie. Queste ultime sono il vero nodo da sciogliere: è sufficiente il semplice trasferimento dell' 'hardware', ossia l'insieme di macchinari e bulloni?
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