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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2011 alle ore 16:39.

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La crisi mondiale dell'energia nucleare, forse non definitiva ma certo profonda e duratura, offre nuove opportunità a varie fonti produttive a lungo trascurate. La più promettente appare quella idroelettrica: genera energia rinnovabile, vanta prezzi tra i più competitivi e, soprattutto, ha ancora vasti margini di sviluppo, essendo stata finora sottutilizzata.

Infatti, a fronte di una produzione di 3.271,6 TW/h raggiunta nel 2009 (pari al 16,3% del totale di 20.093,6 TW/h di elettricità generati nel mondo), i dati forniti nel 2010 dall'Agenzia internazionale dell'energia dicono che c'è un potenziale teorico globale di ben 40.500 TW/h annui, di cui 14.300 tecnicamente sfruttabili e 8.100 utilizzabili proficuamente sotto il profilo economico. Anche considerando solo quest'ultimo dato, significa che il 60% delle capacità del settore attende ancora di essere utilizzato. Questo scrigno contiene quindi una ricchezza tutta da sfruttare. E, cosa altrettanto importante, piuttosto equamente distribuita: i margini maggiori d'incremento, come mostra il grafico accanto, riguardano l'Asia, le Americhe e l'Europa. Inoltre, più di 150 Paesi su 175 dispongono di risorse idroelettriche e in 65 di essi questa fonte dà oltre metà della produzione totale. La Cina, che ha scelto di realizzare progetti grandiosi – a partire da quello delle Tre Gole, sul fiume Yangtze, da 18.200 MW – ha aumentato del 50% il suo potenziale nell'ultimo ventennio, fino a raggiungere l'attuale 19% del totale mondiale.

I vantaggi offerti dalla produzione idrica sono molteplici: la tecnologia è molto "matura" e, non richiedendo know how particolari, è accessibile a tutti; i prezzi del kWh erogato (come abbiano già accennato) sono tra i migliori; l'adozione di turbine sempre più efficienti promette di apportare migliorie significative anche agli impianti obsoleti; la dipendenza dai corsi dei combustibili fossili, spesso soggetti a sbalzi anche cospicui, si ridUce fortemente; i bacini idrici creati consentono impieghi secondari di notevole rilievo, dall'irrigazione alla regolazione del corso dei fiumi. Inoltre – aspetto certo non trascurabile per i governi interessati – permette di difendere l'indipendenza energetica dei Paesi produttori.

Se a tutto ciò si somma un aumento della domanda di elettricità, rispetto ai livelli attuali, stimato dall'International Energy Outlook 2010 del ministero statunitense dell'Energia nel 25% entro il 2020 (25.000 TW/h), nel 75% entro il 2035 (35.200 TW/h) e nel 96% nel 2050 (39.400 TW/h), in presenza di un aumento della popolazione mondiale fino alla soglia di 9 miliardi d'individui a metà secolo, è chiaro che si tratta di una fonte certamente imprescindibile.
Che si guardi sempre più in questa direzione lo dicono i numerosi impianti in via di ultimazione – la scorsa settimana il Congo-Brazzaville ha inaugurato una centrale da 120 MW costata 380 milioni di dollari, per l'85% finanziati dalla Cina – o appena approvati: sempre la scorsa settimana lo Zambia ha deciso di costruire un impianto da 120 MW che costerà 230 milioni di dollari, la Tanzania realizzerà con l'aiuto russo una centrale da 220 MW, ampliabile a 464, del costo di 700 milioni, mentre il Cile ha deciso di avviare il contrastato progetto sui fiumi Baker e Pascua: 5 dighe che consentiranno d'installare 2.750 MW, per un costo globale stimato in 4 miliardi di dollari.

Certo, non tutto è facile nelle pur brillanti prospettive del settore. Tanto che dagli anni 90 un grande movimento d'opinione, ispirato soprattutto da organizzazioni ambientaliste, ha indotto una profonda modifica della filosofia progettuale degli invasi e delle relative centrali, con la scelta di taglie medio-piccole (da 100KW a 2 MW). Un movimento contadino è riuscito finora a bloccare una serie di dighe nello stato indiano dell'Arunachal Pradesh. Resistenza simile mostrano i contadini vietnamiti e cambogiani verso il progetto laotiano di Xayaburi, una centrale da 1.260 MW sul Mekong che assorbirà ben 3,5 miliardi di dollari.

Il costo degli impianti, poi, è spesso proibitivo per molti Paesi. Se la Cina ha potuto mettere a bilancio senza troppi problemi i 22,5 miliardi di dollari per il gigantesco progetto delle "Tre Gole", la diga di Itaipù, il secondo impianto idroelettrico al mondo per ampiezza (12.500 MW costati 19-20 miliardi) ha drenato le finanze del Paraguay e contribuito a gravare fortemente quelle brasiliane.
Ma è sulle conseguenze per l'ambiente (quantità della fauna ittica, regime dei fiumi e loro navigabilità, qualità delle acque) che si appuntano le maggiori riserve dei naturalisti. Che da qualche tempo ipotizzano anche un contributo alle emissioni di CO2 legato alla putrefazione dei vegetali sommersi dagli invasi. Quantità, ben più ridotte delle emissioni di centrali analoghe alimentate da combustibili fossili.

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