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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2011 alle ore 14:27.

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Incontriamo una cultura diversa, tradizionale, conservatrice, ma anche capace di improvvisi e rapidi adattamenti alla modernità: non è soltanto uno scontro di civilizzazioni ma qualche cosa di differente. E ne sappiamo assai poco: come scrisse il francese Romain Gary 30 anni fa, prima di uccidersi, "da qualche parte del mondo sta dando i primi vagiti una civiltà sconosciuta e noi lo ignoriamo". Vinse il premio Goncourt due volte, sempre sotto pseudonimo, e l'ultima da morto.
Non si può tra l'altro rispondere a interrogativi sull'11 settembre nel mondo arabo-musulmano senza considerare la guerra in Iraq. Una situazione ha condizionato l'altra. Con la decisione di abbattere Saddam Hussein gli Stati Uniti avevano aperto un altro fronte mediorientale sottraendo truppe all'Afghanistan e calamitando la presenza di Al Qaeda in Mesopotamia. Questo è uno dei motivi per cui l'11 settembre e le sue conseguenze non sono finite: gli Stati Uniti si sono trovati impantanati in un altro conflitto che non si è ancora concluso. A meno che non vogliamo ignorare gli attentati che quotidianamente scuotono le città irachene.

Ma quello che conta sono gli effetti geopolitici. L'11 settembre e la guerra in Iraq non hanno portato i risultati che si proponevano gli americani. Diventare i guardiani dell'Asia centrale nel punto di raccordo degli interessi di Russia, Cina, India, Pakistan, un quadrilatero atomico, all'incrocio delle risorse strategiche e dei nuovi poli dello sviluppo economico globale. L'Afghanistan resta fuori controllo ma anche il Pakistan, potenza nucleare, che rappresenta il vero nodo dell'Af-Pak, un problema per gli americani forse più intrattabile dei talebani.
A questo si aggiunge quanto è avvenuto in Iraq e dintorni: Bush jr. si proponeva di rifare la carta del Medio Oriente e non ci è riuscito. Le transizioni che vediamo nella regione sono state dovute a fenomeni interni dove gli Stati Uniti non hanno avuto un ruolo. Non solo. L'attuale governo iracheno, caratterizzato da una preponderante maggioranza sciita, è fortemente influenzato dall'Iran mentre prima Teheran, sotto la dittatura di Saddam, era fuori dal gioco. Era per mantenere questo obiettivo che le monarchie sunnite del Golfo avevano finanziato otto anni di guerra del rais contro Khomeini: emarginare gli sciiti e l'Iran dal potere a Baghdad. Il prezzo era stato un milione di morti. Quando nel mondo arabo si parla di 11 settembre il collegamento a questi eventi che lo hanno preceduto è immediato mentre da noi appaiono come uno sfondo confuso e ribollente.

Gli Stati Uniti hanno ottenuto il contrario di quello che pensavano: fare dell'Iraq un saldo Paese alleato. Una delle conseguenze più clamorose è che il governo iracheno appoggia l'Iran nel sostegno alla Siria di Bashar Assad. Mentre la Turchia, bastione storico della Nato, sostiene l'opposizione al regime di Damasco ma si scontra pure con Israele per leadership nel Mediterraneo orientale. Tutto questo fuori da ogni decisione presa a Washington.

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