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Questo articolo è stato pubblicato il 27 maggio 2010 alle ore 10:08.

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Un giorno d'estate di tre anni fa, un fascio di microonde ha attraversato il mare che separa Hawaii da Maui, facendo esattamente il proprio dovere: trasportare 20 watt di energia a 148 chilometri di distanza, da un'isola all'altra. «Entro breve faremo un altro test, più potente e su maggiori distanze», racconta John Mankins, lo scienziato americano che ha organizzato l'esperimento.

Se a qualcuno sembrasse poca cosa, aspetti di scoprire cos'ha veramente in testa Mankins, che oggi fa il consulente in proprio, ma dopo aver trascorso 25 anni fra il Jet Propulsion Laboratory e la Nasa, dove ha ricoperto per un decennio l'incarico di direttore del dipartimento Studi avanzati. In poche parole, il suo compito era quello di congiungere la scienza con la fantascienza.

«Quand'ero piccolo – racconta – assistevo a bocca aperta ai lanci del Mercury, alle missioni Apollo, e mi chiedevo come sarebbe stato il futuro». Fin quando, quasi fosse un'attrazione fatale, il futuro s'è messo a fabbricarlo di persona.
Lo scopo di quell'esperimento alle Hawaii, condotto insieme al collega Nobuyuki Kaya dell'Università di Kobe, era trovare il modo di trasmettere non 200, ma mille miliardi di watt. E non fra due isole a qualche chilometro di distanza, ma fra la Terra e un satellite in orbita geostazionaria, 35mila chilometri sopra le nostre teste.


«Una crisi energetica – commenta Mankins, incontrato a Rovereto dov'è venuto a partecipare al Festival delle Città Impresa – è alle porte: fra la crescita della domanda da parte delle economie emergenti, il picco del petrolio e i cambiamenti climatici, questo pianeta deve rivedere in fretta il proprio sistema di approvvigionamento dell'energia». L'idea dello space solar power è piuttosto antica: l'ingegnere spaziale Peter Glaser la teorizzò nel 1968. Però Mankins l'ha fatta rivivere nel 1999, con un progetto ufficialmente finanziato dalla Nasa.

Ma questa è scienza, non fantascienza. «Tutti i fondamenti fisici per realizzarla sono conosciuti», assicura John Mankins, che qualche anno fa, quando la Nasa ha tagliato i fondi alla ricerca avanzata, ha detto addio all'agenzia spaziale americana. «Tutti i componenti necessari già esistono e non c'è bisogno di fare altre scoperte rivoluzionarie. Occorre soltanto perfezionare i dettagli, condurre i necessari esperimenti e costruire l'intero sistema». I sistemi complessi, del resto, sono il piatto forte di Mankins. «Il mio mestiere – ammette lui stesso – è scoprire nuove applicazioni di cose già esistenti». Il che, è facile solo a dirsi.


Fra le invenzioni di Mankins, che alla Nasa è stato anche a lungo capo della tecnologia per l'esplorazione spaziale, c'è il MagLifter (una catapulta a levitazione magnetica per lanciare in orbita gli shuttle del futuro), il Solar Clipper (una navicella modulare alimentata a "vele" solari) o l'HabBot (un'unità abitativa e di lavoro per le colonie umane su altri pianeti).
Ma il satellite per l'energia solare a 35mila chilometri comporta problemi su un'altra scala di grandezza. «Si tratta di un satellite dove il corpo principale è largo circa un chilometro, ma spesso una ventina di centimetri, dove da un lato ci sono le celle solari per catturare l'energia solare 24 ore su 24 e, sull'altro, le antenne per la trasmissione». Si tratta di microonde, nell'intorno dei 2 gigahertz di frequenza, che attraversano comodamente l'atmosfera anche in un giorno di pioggia e raggiungono un sistema ricevente a terra – una specie di griglia con un diametro di un chilometro – per poi venire convertite in corrente continua. «Ovviamente abbiamo trovato il modo di modulare questo raggio senza che sia nocivo per piante o animali. Anzi, ci sarà da risolvere il problema degli uccelli che sperano di farci un nido, al caldo», ride lo scienziato.

In questo modo, si potrebbe fornire un gigawatt di energia senza le interruzioni che affliggono gli impianti solari a terra. «Il raggio potrà essere spostato a piacere, e diretto sulle stazioni riceventi che ne hanno bisogno. Se collocato in orbita sopra l'Oceano Indiano, può trasmettere energia in Giappone e, nell'arco di millisecondi, spostarsi sull'Italia». Scusi, ma quanti satelliti solari ci potranno essere, a regime? «Centinaia. Direi fino a un massimo di 2mila». E lei conta di vederne uno in orbita, nell'arco della sua vita? «Assolutamente sì», è la risposta altrettanto secca. «Peter Mankins, un mio antenato, è vissuto 111 anni fra il '700 e l'800. E io ne ho solo 54...», dice.


Mankins giura che, «appena ci saranno i soldi e la volontà», il primo prototipo potrebbe essere messo in orbita nel giro di dieci anni. Certo, c'è ancora un sacco di lavoro da fare. Ad esempio, bisogna costruire un SolarClipper e un MagLifter per abbassare il costo dei molteplici lanci per portare in orbita pezzi di satellite da rimontare.
«Penso a una grande collaborazione internazionale, che includa aziende private e governi. Un po' come l'Airbus A380 o il Boeing 787: progetti giganteschi che sarebbero impossibili senza l'aiuto di imprese, Stati e università di mezzo mondo». E questa è politica, non fantapolitica.


Nel frattempo, la Nasa ha cambiato di nuovo strategia ed è tornata a investire sulla ricerca avanzata. Ma Mankins va avanti per la sua strada. «Come scienziato – dice – il mio sogno è riuscire a fare la differenza». Se un giorno una catapulta magnetica lancerà una navicella a vele solari per costruire una fabbrica spaziale di energia da trasmettere wireless sulla Terra, la differenza sarà fatta.

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