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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2010 alle ore 19:32.
Uscito sconsolato dalla riunione a porte chiuse con i democratici del Senato, il senatore John Kerry ha dovuto ammettere: «Non abbiamo i voti». La matematica non lascia scampo. Per fare passare al Senato il Clean Energy Jobs and American Power Act, approvato più di un anno fa dalla Camera con il nome Climate and Energy Bill, occorrevano 60 voti. «Non abbiamo trovato un solo repubblicano disposto a votare il provvedimento», ha aggiunto il capogruppo democratico Harry Reid.
La conta, nelle ultime settimane, è spesso cambiata, ma il risultato non ha mai raggiunto 60. Anche nelle file dei democratici diversi senatori (in particolare quelli degli stati dove si estrae carbone) non hanno dato la disponibilità. Al Senato arriverà una versione sostanzialmente vuota del pacchetto. Sparisce la parte più rilevante, ovvero il taglio delle emissioni di CO2 del 17%, rispetto ai valori del 2005, entro il 2020. Una cifra bassa rispetto al target europeo, che punta a una riduzione del 20% entro il 2020 ma partendo dai livelli del 1990, dove le emissioni erano inferiori al 2005. Comunque una svolta per un paese che proprio nel 1990 si rifiutò di ratificare il protocollo di Kyoto.
Richard Caperton, analista di politiche energetiche del think-tank liberal "Center for American Progress", in un'intervista al Sole24ore.com del 6 maggio scorso aveva sottolineato i rischi rappresentati della marea nera per la politica energetica di Obama. Il presidente degli Stati Uniti ha fatto della green economy uno dei principali cavalli di battaglia della campagna elettorale che l'ha portato alla Casa Bianca. E' stato preso come riferimento un po' in tutto il mondo per una trasformazione del paradigma energetico che facesse leva sul sole e sul vento per creare migliaia di posti di lavoro e ridurre la dipendenza dalle fonti fossili. Proprio il petrolio ha impelagato a sorpresa Obama nelle acque profonde del Golfo del Messico, dove l'esplosione della piattaforma di Bp ha disastrato le coste di Florida e Louisiana e assunto una valenza politica.
Per convincere i senatori più ostici, Obama aveva sospeso la moratoria sulle trivellazioni offshore imposta nel 1969 in America dopo un disastro ecologico in California. Svolta che sul piano energetico significava ridurre la dipendenza dal greggio importato dal Medioriente, migliorando la sicurezza energetica del paese. Con l'arrivo della marea nera, nel pacchetto fermo al Senato è comparso un capitolo per rendere più sicure le perforazioni al largo delle coste. Nella retorica dell'amministrazione la svolta delle energie pulite è diventata la chiave di volta per entrare in una nuova epoca e ridurre la dipendenza dal petrolio. La titubanza di Obama nelle prime settimane del disastro ha complicato le cose e i numeri, al Senato, non sono mai arrivati.
Oggi il senatore Kerry ha detto che il pacchetto clima «non è morto», se ne riparlerà dopo le elezioni di Novembre. Nel frattempo, da quando è presidente, Obama ha dato il via libera a nuove centrali nucleari dopo trent'anni - parte della sua green economy - e elargito 36,7 miliardi di dollari all'energia (in particolare al risparmio energetico) tra i 787 miliardi del pacchetto di stimolo all'economia dopo la grande crisi finanziaria. Il tetto alle emissioni è però giudicato decisivo per dare l'impulso promesso in campagna elettorale alle energie pulite.
L'Europa su questo fronte è all'avanguardia. Non solo sul tetto alle emissioni. Di green economy, in Germania, si parla da qualche decennio. Quando però si guarda ai grandi numeri, la produzione, i trend di crescita e ai grossi investimenti nel green business tocca guardare, oltre agli Stati Uniti, anche alla Cina. L'inquinata Pechino l'anno scorso ha stanziato 30 miliardi di dollari per le energie rinnovabili all'interno del pacchetto nazionale di stimolo all'economia, giudicato il più "verde" al mondo. Nel 2009, secondo il recente Renewables 2010 Global Status Report, elaborato dal Renewables energy policy network for the 21st century (Ren 21), le energie pulite hanno continuato a crescere nel mondo con 79 gigawatt di nuove installazioni, 37 dei quali originati sul territorio cinese.
Per i prossimi dieci anni la National energy administation cinese (Nea) ha appena annunciato un programma di investimenti da 600 miliardi di euro in dieci anni per lo sviluppo energetico, prevalentemente rinnovabili, per ridurre le emissioni di gas serra. Da quando green ha cominciato a fare rima con business a Pechino hanno iniziato a fiorire start up, finanziamenti e aziende come Suntech, diventata leader mondiale nella produzione di pannelli fotovoltaici. Cina e Stati Uniti stanno gettando le basi per giocarsi la leadership di una delle industrie più promettenti per il futuro del pianeta. La Cina deve risolvere contraddizioni e destreggiarsi su una strada ancora tortuosa, ma oggi, perlomeno, ha il suo energy bill.
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