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Questo articolo è stato pubblicato il 27 giugno 2011 alle ore 14:53.

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Avviati nel 2008 (scadranno nel 2013), gli accordi con il Mit prevedono la spartizione dei proventi dei brevetti con una serie di clausole aggiuntive a seconda delle scelte dei partners (ad esempio Eni può non essere interessata a un certo sviluppo e cede con il Mit la tecnologia a terzi che pagano royalties). I contributi dell'Eni al Mit sono di 10 milioni di dollari all'anno.

C'è poi un altro accordo siglato nel gennaio di quest'anno con Stanford University, in California. L'accordo per ora prevede solo uno studio di fattibilità e un progetto. Costa 10 milioni di dollari per quattro anni e ha come obiettivo l'identificazione di nuovi metodi per misurare l'inquinamento tramite nuovi sensori fluorescenti. I sensori allo studio sono costituiti da più molecole organiche ancorate a una struttura di Dna e capaci di rispondere con emissione di fluorescenza a numerose sostanze inquinanti con cui vengono in contatto. Ciò consentirà di verificare l'affidabilità di alcune delle fonti rinnovabili e di giocare d'anticipo in caso di rilevamento di inquinamento.

Sono due gli elementi che hanno orientato le scelte strategiche sulle fonti rinnovabili del gruppo energetico italiano guidato da Paolo Scaroni. La prima riguarda gli equilibri generali di approvvigionamento energetico; il secondo le prospettive di mercato di medio termine delle energie alternative fotovoltaiche o biomasse: «Il fatto – continua Vergine – è che non avevamo fretta, abbiamo preferito puntare sul futuro e su un mercato potenzialmente molto più ampio di quello che si può raggiungere oggi. Per quanto tempo il contribuente accetterà di pagare gli incentivi al fotovoltaico in bolletta per finanziare qualcosa che è allo stesso tempo costoso e poco pratico?».

Gli studi più aggiornati stimano che per il 2030 la domanda di energia mondiale crescerà del 30%. La parte del leone continueranno a farla petrolio, gas e carbone. Ma l'offerta complessiva dei fossili sul totale del fabbisogno scenderà dall'81% circa di oggi al 75% del 2030. E nello stesso gruppo fossili, la componente petrolio scenderà dal 33% attuale al 29%, il carbone passerà dal 27% attuale al 21%, il gas salirà dal 21% attuale al 25%. Le rinnovabili passeranno dal circa 19% del fabbisogno energetico totale di oggi al 25%: biomasse, solare ed eolico, tutte fonti che aumenteranno mentre diminuirà in maniera graduale ma inesorabile l'energia prodotta dal nucleare.

La scelta dell'Eni è stata di puntare sulle nuove generazioni del solare e delle biomasse. Da una parte c'è il nocciolo duro della ricerca sulle energie alternative, che si sviluppa nel contesto dell'Istituto Donegani di Novara. Dall'altra ci sono le biomasse perché, come spiega Vergine, «sono nelle nostra filiera: oggi raffiniamo carburanti, domani raffineremo biocarburanti. Quando l'etanolo va nella benzina diventa un biocarburante. Non diventeremo mai agricoltori, ma trasformeremo dei prodotti che entrano nel ciclo di raffinazione».

E qui entrano in gioco le biomasse. L'impegno di Eni sui biocarburanti è legato sia a obiettivi generali di sostenibilità, sia alla esigenza di ottemperare agli obblighi delle direttive europee in materia, che impongono una quota di carburanti di origine bio pari al 10% al 2020. I biocarburanti che oggi vengono addizionati ai prodotti di derivazione petrolifera sono due: l'Etbe, un derivato dell'etanolo che è aggiunto alla benzina e il Fame, un biodiesel derivato da oli vegetali come la palma o la colza. «Come vede abbiamo molti fronti aperti e tutti sull'ultima frontiera della ricerca. Siamo molto soddisfatti delle partnership italiane con il Politecnico di Torino e quello di Milano» afferma Vergine.

L'Istituto Donegani compie quest'anno i 70 anni. È il più importante laboratorio di ricerca chimica in Italia: nasce nel 1941 per iniziativa degli ingegneri Giacomo Fauser e Guido Donegani. Negli anni l'Istituto passa di mano fino ad arrivare all'Eni. Il punto di forza è quello dei polimeri. Ed è proprio dallo studio di composti polimerici al 100% che si formano degli strati di tipo organico che permettono di realizzare campioni di celle flessibili. Ci sono già due aziende europee che hanno fornito garanzie di produzione. Una volta terminato il lavoro in laboratorio, infatti, per entrare in produzione occorre appoggiarsi a macchine utensili altamente specializzate. Si tratta di aziende dotate di rotative che servono il mercato dei televisori, producendo i nuovi schermi digitali in pezzature in genere di un metro di altezza per tre di larghezza. È su questi materiali che si potrà “stampare” le nuove celle. In tre anni si dovrebbe passare alla commercializzazione.

Sempre al Donegani si sta lavorando alla cornice di una finestra che dovrebbe di nuovo raccogliere la luce solare e trasformarla in elettricità. Il processo avviene tramite lastre fotoluminiscenti e lo sviluppo di coloranti organici utili a convertire le bande di frequenza più alte dell'energia solare, come gli ultravioletti (che non sono assorbiti dal silicio), a bande più basse. Il risultato è una finestra nella cui cornice sono inserite strisce sottili di celle fotovoltaiche al silicio. Queste celle non hanno bisogno di essere orientate per seguire il sole: catturano lo stesso il massimo dell'energia solare e usano molto meno silicio rispetto a un pannello fotovoltaico tradizionale. Entro un anno ci saranno le prime installazioni sulle finestre; entro tre anni si entrerà in produzione.

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