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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2011 alle ore 14:27.

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Cinque mesi prima ero salito nello stesso punto della North West Frontier, l'area tribale pashtun, a scrivere un articolo che come altri aveva poche probabilità di essere letto: passata la furia iconoclasta dei talebani sui Buddah di Bamyan, questi argomenti non suscitavano interesse.
Fu per un'impuntatura profetica del capo servizio esteri che mi trovavo lassù: voleva sapere tutto di Pakistan e Afghanistan. A Kabul il regime dei talebani mi apparve come una compagine dal pugno di ferro e dalla lama affilata ma senza alcuna esperienza di governo o di relazioni internazionali: l'ex traduttore dell'ambasciata italiana, un professore di tendenze laiche, era vestito con un turbante sgargiante arancione e faceva il gran ciambellano ricevendo le delegazioni straniere perché era uno dei pochi rimasti che praticasse lingue straniere.
Non so neppure bene perché conclusi l'articolo del 13 maggio 2001 con una frase di Churchill: "Ogni uomo qui è guerriero, politico, teologo". E aggiunsi: "Forse è un mondo un po' troppo complesso da afferrare per un Occidente di teleutenti distratti".

Un mondo complesso e pieno di amare sorprese: l'11 settembre aprì una voragine di conoscenza che fino ad allora avevo colpevolmente ignorato. Improvvisamente sugli schermi mondiali apparve un popolo di esperti di Afghanistan e di Islam: per fortuna non vidi e ascoltai quasi nulla perché in genere sono assolutamente inservibili quando si tratta di portare a casa la pelle. Per conoscere questi posti e la loro gente occorre anche andarci, consumare le suole della scarpe e avere fortuna. Passai oltre un mese in Pakistan e poi arrivai a Kabul mentre i talebani scappavano dalla capitale ma restavano intorno quasi ovunque: trucidarono due cari amici giornalisti al Passo di Sarubi e oggi continuano ad ammazzare i soldati italiani e della Nato.

Cosa è cambiato in Afghanistan da allora? Non tanto. A parte la retorica che stiamo portando la civiltà da quelle parti, non molto dissimile da quella coloniale del secolo scorso. Numerosi afghani sono anche grati per quello che facciamo ma prima di tutto ci criticano e guardano i militari come stranieri in armi che occupano il loro Paese. Possiamo essere utili quando costruiamo strade, scuole e altro ma non per questo si trattengono dall'uccidere i soldati occidentali.
Ci facciamo le stesse domande che si ponevano i francesi in Algeria e ricorriamo agli stessi usurati argomenti per giustificare la nostra presenza. Non è un caso che nel 2005 il dipartimento di Stato americano mi mandò un invito per assistere a una visione riservata ai giornalisti della "Battaglia di Algeri" di Pontecorvo _ che qui in Italia conosciamo fin da ragazzi _ e si rispolverarono tutti i manuali della controguerriglia: anche il generale Petraeus, tra Iraq e Afganistan, ne scrisse uno.

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