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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2013 alle ore 16:25.
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Non ho dubbi e rispondo affermativamente. Occorre aumentare le quote di Pil nel comparto cultura, ricerca, istruzione e tutela del patrimonio paesaggistico. Sarà centrale la fedeltà alla legalità costituzionale con quanto ne consegue in termini di tutela dei diritti della cultura e del patrimonio artistico, architettonico, librario e archivistico che vive una situazione di grave crisi. Da troppo tempo ripetiamo che l'Italia è il fanalino di coda della Ue per le spese in ricerca (1,26% del Pil contro una media del 2,01%) e sappiamo che la composizione della spesa in 20 anni ha registrato - 5,4% in istruzione/ricerca e solo + 0,1% in attività ricreative e culturali, ma non facciamo nulla per invertire questa tendenza. Ad esempio, occorre subito integrare i finanziamenti ordinari alle università, che rischiano di non riuscire a pagare nemmeno gli stipendi nel 2013 e serve un programma nazionale della ricerca per finanziarla con meccanismi all'altezza del sistema europeo. Per quanto riguarda il reperimento delle risorse necessarie, i risparmi sull'interesse del debito e le riduzioni delle voci di spesa aumentate dal 1990 a oggi – possibili grazie alla riforme della previdenza e alla spending review – ci consentono di programmare nuovi investimenti. Inoltre, è necessario sfruttare meglio le risorse europee, fornire incentivi a partenariati pubblici/privati e attivare una defiscalizzazione più conveniente per le donazioni. Bisogna farlo perché non è vero, come sostenuto dalla propaganda della destra, che con «la cultura non si mangia». Anzi, esiste una relazione tra la cultura e la capacità innovativa di un Paese: non a caso in Europa ad avere i tassi di accesso culturale più bassi sono Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda, ossia i Paesi più colpiti dalla crisi.
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Il nostro straordinario patrimonio culturale, scientifico e paesaggistico deve tornare a essere al centro di un progetto di sviluppo sostenibile: si tratta di settori non delocalizzabili e ad altissimo valore aggiunto che permettono ancora all'Italia di essere conosciuta e riconosciuta universalmente nel mondo. Quella dei saperi diffusi, della cultura e dell'innovazione è una delle possibili exit strategy da questa crisi economica devastante: per percorrerla c'è bisogno di politiche serie, anche industriali, di sviluppo per la creatività e per la cultura e di una programmazione degli interventi. Le politiche dei finanziamenti a pioggia si sono dimostrate inutili e dannose. Il Mibac ha serissimi problemi di personale: i tecnici scarseggiano e in breve i pensionamenti rischiano di desertificarlo. Esso deve essere rimesso nelle condizioni di operare, restituendo dignità ai lavoratori e diritti e certezze alla vasta schiera di giovani precari iperqualificati. E vanno anche implementati i fondi per il funzionamento della struttura: manutenzione, tutela, valorizzazione dei beni culturali e finanziamento alle attività culturali e del cinema devono continuare a essere la mission di questo ministero. È necessario anche ridefinire i criteri di spesa, specie nelle attività culturali: bisogna porre particolare attenzione all'innovazione, alle produzioni dei giovani, alla sperimentazione e ai nuovi linguaggi con l'obiettivo di spendere meglio per chiedere di più.
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La questione dell'insegnamento della pratica artistica e musicale nelle scuole è una ferita aperta. Va irrobustita la presenza dell'arte e della musica nei programmi scolastici, ma è altrettanto importante che queste discipline siano proposte da insegnanti capaci di trasmettere in modo adeguato le loro conoscenze. Secondo le statistiche Eurostat 2011 l'Italia è al 24° posto su 30 Paesi per la spesa culturale delle famiglie; meno del 50% degli italiani ha letto un libro nell'ultimo anno contro l'85% dei cittadini svedesi; il 70% dei nostri connazionali non assiste a spettacoli dal vivo. Il basso livello di fruizione culturale è una delle cause della poca cura che il nostro Paese riserva alla cultura, considerata ancora come un settore di nicchia. D'altronde gli alti livelli di consumo culturale sono universalmente ritenuti sinonimo di capacità di innovazione, di disposizione al cambiamento, di consapevolezza di sé e dei propri diritti. Più alto è il consumo di cultura più cresce la capacità di autofinanziamento (e quindi l'indipendenza) delle imprese culturali. Per questa ragione l'alto tasso di analfabetismo funzionale deve preoccuparci anche per le sue conseguenze economiche e l'azione del nuovo governo dovrà affrontare questo problema. D'altra parte come disse il rettore di Harvard Derek Bok: «Se pensate che l'istruzione costi, provate con l'ignoranza».
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Storicamente l'Italia fatica a cogliere le opportunità di sviluppo create dai fondi europei che costituiscono un'occasione essenziale per migliorare l'offerta culturale. Per fortuna, grazie al buon lavoro del ministro Fabrizio Barca, la situazione nell'ultimo anno è migliorata. Nel Mezzogiorno, principale beneficiario, a fronte del 3,62% di risorse per il settore culturale, è stata spesa una cifra irrisoria (0,66 per cento). Una parte è stata riprogrammata, ma la cultura ha perso ben 33,3 milioni di euro. Innovare nella conservazione e nella promozione culturale significa accompagnare le Regioni nella programmazione, progettazione e spesa dei fondi strutturali. Sarebbe utile istituire una cabina di regia centrale (per esempio nella sede Stato-Regioni) che coordini l'azione regionale. Sarebbe anche utile allargare la definizione di cultura a quella di industria culturale e creativa per rilanciare un'intera filiera produttiva (oltre al patrimonio culturale anche l'audiovisivo, l'architettura, la moda, la pubblicità e il design). Per esportare il valore della nostra cultura, servirebbe un'agenzia per l'industria culturale e creativa con lo scopo di facilitare i contatti e aiutare Pmi e giovani a partecipare a fiere internazionali.
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