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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2013 alle ore 18:11.

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In politica nessuno prende mai voti per quello che ha fatto in passato, ma solo per la capacità di evocare una speranza, quindi di guardare al futuro. L'esempio più famoso (e abusato) è quello di Winston Churchill che, dopo aver vinto la seconda guerra mondiale, viene congedato senza complimenti dagli inglesi desiderosi di affidarsi a un nuovo leader per la stagione della pace.

E Churchill stesso, anni dopo, raccontando questo episodio a Indro Montanelli, dirà: «Un grande popolo è tale proprio perché può permettersi di essere ingrato».Monti non ha vinto una guerra, ma ha evitato all'Italia, come si usa ripetere, «un destino di tipo greco». Cioè l'ha salvata dal dissesto delle pubbliche finanze. Tuttavia, proprio perché non ha voglia di sperimentare l'ingratitudine dei suoi concittadini, il leader di "Scelta civica" cerca di non presentarsi più di tanto come l'uomo dell'anno scorso, il premier che a impedito il collasso finanziario, ma che ha imposto livelli di fiscalità senza precedenti, accentuando la flessione dell'economia. Monti continua a parlare dei successi e delle difficoltà del periodo "tecnico", ma si sforza di proiettarsi verso il domani. Nel discorso di Kilometro Rosso, l'apertura ufficiale della campagna elettorale della terza forza, è apparso ben consapevole che le elezioni si vincono se si riesce a parlare al cuore delle persone e si evoca la speranza, almeno la speranza, di una vita migliore.

Il primo pericolo che Monti si è proposto di scansare è che prevalga il richiamo al "voto utile". È l'arma segreta di ogni bipolarismo in crisi quando ci si avvicina alle urne. "Voto utile" significa cedere consensi a destra e a sinistra, su entrambi i fronti, perché non si riesce ad affermare una ragion d'essere, non si riesce a spiegare agli elettori il motivo di una scelta diversa. È l'eterno dramma di ogni "Terzo polo" ed è qui, nella tenacia con cui Monti vuole sfatare la tradizione, che si misura l'ambizione del suo disegno politico. Oggi i sondaggi danno la lista (o meglio, la coalizione che lo sostiene) inchiodata fra il 14 e il 15 per cento. Non è poco, ma non è quello che si attendono i convenuti a Bergamo. I quali chiedono molto di più agli elettori, il loro orizzonte va oltre il 20 per cento dei consensi, si allunga fino al 25.

Che sia possibile o no, il tentativo è questo. Anche perché i più avvertiti fra i "montiani" sanno che in campagna elettorale ristagnare vuol dire retrocedere. E dunque va bene il richiamo all'Italia seria e perbene, benissimo l'insistenza sulle competenze e la pulizia morale, ma occorre trovare temi e argomenti in grado di scuotere la naturale pigrizia di una buona quota di elettorato. Monti sa che la partita è difficile e oggi non ha fatto nulla per nasconderlo. Però ha saputo anche toccare le corde giuste. In primo luogo ha messo in gioco se stesso. Ha detto con una chiarezza mai così evidente che non è interessato al Quirinale, che la sua missione è quella di governare. Anzi, di governare respingendo le tentazioni "moderate" e senza fare sconti alle contraddizioni della sinistra.

In altre parole, con il discorso di Bergamo Monti ha voluto intestarsi una duplice battaglia, ponendosi alla testa di un'ipotetica Italia riformatrice, chiamando quindi a raccolta i riformisti di sinistra e di destra. Ha riservato solo a Vendola una netta risposta polemica, non ha mai citato Bersani, ha usato una notevole dose di ironia verso Berlusconi, ma senza superare la soglia di guardia. Si è sforzato di parlare agli elettori di destra e di sinistra delusi delle rispettive appartenenze e soprattutto di rivolgersi al grande mare degli astenuti. Quel soggetto inespresso che i sondaggi oggi danno un po' in calo, ma ancora in grado di costituire un colossale bacino di consensi, se solo fosse possibile svolgere con successo opera di persuasione.

Non è detto che questo richiamo alla passione civile, alla battaglia contro i vecchi schemi, possa funzionare. Ci sono limiti e contraddizioni anche nella coalizione che sostiene Monti. Casini e Fini non sono certo dei novellini della politica, rappresentano anzi (anche loro mai citati) alcuni dei punti deboli ereditati dalla Seconda Repubblica. E non è detto che la società civile a cui si sono rivolti Riccardi, Montezemolo e lo stesso Monti rappresenti sempre e comunque una sorta di zona franca da cui attingere a piene mani idee e personalità. Sarebbe fin troppo facile.

Altro punto fragile: se la lista Monti non andrà oltre quel 14-15 per cento indicato dai sondaggi attuali, il leader dovrà accettare accordi post-elettorali con il Partito Democratico, ma da posizioni negoziali non troppo solide. Il che significa minore possibilità di incidere sui programmi e sulla realizzazione di quel manifesto riformista a cui Monti fa continuo riferimento. Anche qui c'è molto da fare. L'agenda va "affinata", ha detto lo stesso premier. C'è una riforma del lavoro da riscrivere, sembra di capire, ci sono riforme istituzionali da riavviare. Tutto questo esige una considerevole forza politica, specie se s'intende sul serio scomporre i due maggiori poli e far emergere una coalizione riformista di nuovo stampo.

Molte cose insomma andranno precisate nel corso della campagna elettorale. Monti oggi ha toccato varie corde giuste, ha di nuovo ammiccato ai sentimenti antipolitici di un'opinione pubblica disorientata, che non ha dimenticato quanto i vecchi partiti si siano screditati negli ultimi anni. Ma non ha ancora scoperto le sue carte, sapendo che per la terza forza il cammino resta in salita.

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