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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2013 alle ore 07:30.
A passi lenti, camminando lungo un sentiero stretto e tortuoso, ricco di insidie, si va verso un «governo del presidente». L'espressione «governo tecnico», ricca di ambiguità, non è mai piaciuta al Quirinale e in effetti stavolta non rende l'idea. Il termine «tecnico» si attaglia nell'immaginario popolare ai professori di economia. Peraltro, un ex tecnico che poi si è votato alla politica siede tuttora a Palazzo Chigi.
Non solo ci resterà fino a quando il Parlamento avrà espresso la fiducia a un nuovo esecutivo, ma è ogni giorno pienamente titolato a reggere la cosiddetta «ordinaria amministrazione»: espressione che comprende la partecipazione ai vertici internazionali e la messa a punto delle leggi di bilancio (qualcuno si domanda quale sia, nella maggioranza dei casi, la differenza fra ordinaria amministrazione e piena attività).
Il fatto che Monti stia incontrando i protagonisti della scena politica (ieri Renzi, venerdì Berlusconi, ma anche Bersani e forse persino Grillo) dimostra che il premier tiene a sottolineare la piena legittimità del suo ruolo. E questo è un punto acquisito. Allo stesso modo nulla vieta ai parlamentari eletti di cominciare a darsi da fare con un'idea di rinnovamento del sistema.
Poi c'è, come dicevamo, il lungo tragitto verso il «governo del presidente». Emanuele Macaluso, vecchio amico del presidente della Repubblica, ha spiegato con parole chiare al "Quotidiano Nazionale" quali siano i profili a cui pensa Napolitano: un esecutivo «composto da personalità stimate e il più possibile trasversali con competenza non economica ma costituzionale». Quindi conoscenza dello Stato e della necessità di procedere con un progetto di riforme urgenti. Alla fine del 2011 l'emergenza era economico-finanziaria. Oggi l'Italia soffoca nella stagnazione anche perché le istituzioni sono anchilosate e il sistema politico a un passo dalla paralisi.
Ne deriva che la strada imboccata non porta verso un esecutivo "tecnico", bensì verso un assetto fondato su una forte caratura istituzionale: nel rispetto dei partiti che dovranno votargli la fiducia, ma senza che essi siano direttamente coinvolti in base a un patto politico concordato fra le segreterie. In questo senso non sarà un «governissimo», cioè un'alleanza fra Pd e Pdl, e questo dovrebbe forse rassicurare i democratici di Bersani, del tutto contrari a qualsiasi accordo con Berlusconi.
In fondo lo stesso Grillo, nel momento in cui grida il suo «no» ai governi tecnici, tiene aperto un canale di dialogo con il Quirinale. Potrebbe essere il segno che non gli sfugge la differenza, poiché il termine «governo del presidente» abbraccia molti significati (il che, certo, non vuol dire che il M5S lo voterà in Parlamento). Ma la vera domanda è un'altra. Il governo «del presidente» implica che ci sia un presidente che dal Quirinale vigila e protegge la sua fragile creatura: perché quell'esecutivo e il suo premier sono emanazione diretta della sua volontà. Sappiamo che Napolitano concluderà il suo mandato fra due mesi. Logica vorrebbe che il Parlamento lo confermasse nel suo incarico proprio per non vanificare l'architettura dell'eventuale governo «istituzionale». Che molto deve all'autorità personale di questo capo dello Stato. Con un altro al Quirinale cambierebbe lo spartito e le incognite non mancherebbero. Ma questo aspetto maturerà al momento opportuno.
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