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Questo articolo è stato pubblicato il 07 marzo 2013 alle ore 08:39.

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Il dato politico, a ben vedere l'unico emerso dalla direzione del Partito Democratico, è l'accantonamento definitivo dell'alternativa secca "governo Bersani o elezioni anticipate". Può apparire poco e invece è molto. Si tratta del massimo del realismo che si può chiedere in questo momento a un gruppo dirigente sotto stress, il cui obiettivo prioritario è quello di tenere unito il partito ed evitare errori vistosi dalle conseguenze imprevedibili.

In fondo la stessa frase di Bersani («non abbiamo un piano B») va intesa alla lettera: oggi non abbiamo un piano B perché non ci abbiamo ancora pensato. E in ogni caso – ecco il sottinteso – il piano B dovrà essere definito con il presidente della Repubblica.
Così, alla fine di un lungo giro, il Pd riconosce al capo dello Stato il margine di manovra indispensabile per gestire la più drammatica crisi degli ultimi anni. Si dirà che era inevitabile, oltre che ovviamente corretto dal punto di vista costituzionale. Ma nulla era scontato, date le premesse dei giorni scorsi. La strategia degli Otto Punti, se portata alle estreme conseguenze, conduceva diritta al governo di minoranza destinato a essere battuto in Parlamento. Ovvero a una formidabile tensione con Napolitano se questi (come era lampante) si fosse rifiutato di assecondare l'operazione.
Ora lo scenario è mutato e certe contraddizioni interne ai "democratici" sono state messe da parte. Verrà presto il giorno in cui si dovrà affrontare il piano B, ma intanto la giornata si chiude senza morti e feriti. Certo, gli Otto Punti di Bersani, una volta capito che non costituiscono più il grimaldello per tornare alle urne, appaiono per quello che sono: un manifesto di buone intenzioni anche piuttosto vago e generico. Non proprio il carburante di un governo super-riformatore. Ma tant'è. Quel che conta, non ci sono "ultimatum" da parte del segretario del Pd. E c'è la volontà, almeno per ora, di procedere senza strappi.

Chiaro che molto resta ancora da fare, specie nel rapporto con il Quirinale. Il Pd non si è ancora davvero affidato a Napolitano, ha soltanto evitato di mettersi di traverso giusto ai primi passi della legislatura. Il resto si vedrà poi, quando i tentativi di restituire un governo al paese entreranno nel vivo. Si vedrà allora quanto sarà costruttivo il contributo del centrosinistra e degli altri sulla via del cosiddetto «governo del presidente».
È chiaro che il compito di Bersani non è invidiabile. Da un lato, deve tenere alta una bandiera un po' sfilacciata dal risultato del voto; dall'altro, deve guidare il partito lungo il passaggio più insidioso degli ultimi trent'anni, mentre Renzi rimane sullo sfondo come l'alternativa interna più convincente (ma non in tempi brevi). E verrà il giorno in cui si porrà il tema di votare o no con il centrodestra un programma di riforme. Quello sarà il momento della verità. Certo, potrebbe anche non arrivare mai. Grillo per ora se ne sta sulla riva del fiume in attesa di veder passare i cadaveri dei suoi nemici. E da Berlusconi-Alfano non sono giunte finora parole significative.
Il centrodestra potrebbe restare prigioniero del tatticismo e dei rancori. Ovvero potrebbe spiazzare i competitori, da Bersani a Monti, proponendo alcuni punti concreti su cui realizzare l'eventuale maggioranza «di scopo». Berlusconi rimarrebbe un alleato impossibile, ma il problema politico sarebbe sul tavolo. Lo vedremo. D'Alema, ad esempio, sta ragionando su questa e altre eventualità: perché l'unità nazionale – al netto dell'ingombro berlusconiano – non può essere sempre sacrificata ai tabù irrazionali. In ogni caso ora si pongono le scadenze istituzionali, l'elezione dei presidenti di Camera e Senato. Non si capisce come intende regolarsi il Pd. C'è da augurarsi che anche qui prevalga il realismo.

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