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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2012 alle ore 08:08.
L'ultima modifica è del 22 dicembre 2012 alle ore 09:44.

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I quattrocento giorni di Monti si sono conclusi al Quirinale secondo le previsioni e il processo di scioglimento delle Camere si svolgerà in modo lineare, soprattutto rapido. Quello che non è ancora chiaro è cosa accadrà dopo (e non a causa del calendario Maya). Il presidente del Consiglio si è congedato dai suoi ministri con parole quasi commosse. «Possiamo essere fieri di quello che abbiamo fatto» ha detto. Ma questo legittimo orgoglio è la premessa di un passo avanti, del fatidico impegno politico di cui si parla da tempo? O al contrario è l'annuncio che una stagione, pur importante, si è chiusa lasciando sul tavolo un'eredità che altri, se vorranno, sapranno raccogliere e interpretare?

È un po' singolare che questi interrogativi non trovino una risposta chiara e definitiva nemmeno dopo le dimissioni dell'esecutivo. C'è molta attesa nell'aria circa le decisioni del premier, ma è una sensazione che si respira da giorni, se non da settimane. Nel frattempo sono avvenuti due fatti rilevanti. Primo, si è capito che Monti vuole candidature limpide e trasparenti. Le liste che eventualmente faranno la campagna ispirandosi a lui dovranno presentare profili ineccepibili. L'esigenza è più che comprensibile, ma finisce per confliggere con le logiche e le vischiosità tipiche dei partiti.

La verità è che si sta creando una contraddizione. Da un lato, Monti vuole parlare agli italiani e proporre loro temi in grado di avere un impatto cruciale, forse clamoroso, sul dibattito politico e sociale: la necessità di una rivoluzione liberale in economia, l'agenda per stare in Europa con dignità, un nuovo senso dello Stato. In poche parole, un modo innovativo di intendere il servizio alla cosa pubblica. È un impianto che il sistema politico malato fatica ad accettare.

Dall'altro lato, questo percorso può essere compiuto solo seguendo binari sperimentati. E allora ecco la coalizione «centrista» a cui occorre offrire il proprio volto e la propria bandiera. Ecco le regole elettorali e i problemi legati alle candidature: perchè partiti e gruppi organizzati hanno le loro esigenze e non tutte sono nobilissime. Il discorso sulle candidature diventa quindi lo strumento per reclamare una discontinuità. O per provare a farlo. Ma la distinzione fra «vecchia» e «nuova» politica non è mai così netta ed è difficile sciogliere in fretta tanti nodi aggrovigliatisi nel tempo.

Il secondo fatto nuovo degli ultimi giorni riguarda gli attacchi che Monti ha ricevuto da più parti, da Bersani e da Berlusconi (sia pure con toni molto diversi). Era un'eventualità largamente prevista. Peraltro l'ambizione del premier è molto alta. Non è quella, come si va dicendo banalmente, di farsi eleggere al Quirinale, bensì di concorrere a cambiare l'Italia. L'immagine della Terza Repubblica come traguardo finale semplifica un po' troppo, ma rende l'idea. Ebbene, era inevitabile che un progetto del genere suscitasse obiezioni, inquietudini e reazioni, fino a scatenare violente offensive politico-elettorali.

Berlusconi considera Monti, non a torto, il suo principale avversario, l'uomo che lo ha isolato rispetto all'Europa e alla Chiesa. Bersani teme di essere schiacciato a sinistra e di perdere i consensi del ceto medio. Senza poi ignorare i dubbi di Napolitano che non ha mai nascosto di temere il logoramento del premier nel frullatore della politica e il venir meno della sua preziosa «terzietà».

Sia il punto primo sia il punto secondo andavano messi nel conto. Da Monti e da tutti quelli che lo sostengono nel suo progetto europeista. In fondo lo ha ben detto Andrea Olivero, fresco dimissionario come presidente delle Acli e fautore della prima ora del "montismo" politico: «L'impegno diretto comporta dei rischi forti, non dobbiamo nasconderlo... La strada non è spianata e ci sono svariati elementi che ci tengono legati alla situazione precedente».

Dire che «la strada non è spianata» è un eufemismo. In pratica ci sono enormi ostacoli davanti a Monti, vere montagne da scalare. Ma delle due, l'una. O il presidente del Consiglio è convinto di avere una missione da compiere in nome dell'Europa, e allora non ha altra scelta se non quella di andare avanti con determinazione, quali che siano le resistenze, i freni e gli attacchi che sarà costretto a subire. Ovvero teme che il compito sia troppo arduo, per la disparità delle forze in campo, e allora è bene fermarsi e limitarsi a una funzione di indirizzo morale. Ma in tal caso era meglio non aver suscitato tante attese. De Gaulle seppe andare avanti nell'ora cruciale, ma è anche vero che aveva preparato in precedenza il terreno a Parigi, più di quanto la leggenda non dica.

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