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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2013 alle ore 07:50.

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La novità a destra è dunque un ritorno all'antico: il vecchio asse elettorale fra Pdl e Lega reso quasi obbligatorio dalla legge elettorale, ma che è anche una confessione di debolezza e di inerzia politica. Nei loro anni d'oro Berlusconi e Bossi dominavano il Parlamento e governavano (più o meno) l'Italia. Oggi la riedizione è imposta dalle circostanze, ma Berlusconi ha parecchi anni di più e Maroni ha ereditato un Carroccio squassato da scandali e scandaletti, emblema negativo del fallimento della Seconda Repubblica.

Certo, in apparenza il segretario leghista ha ricavato un vantaggio non da poco dal nuovo patto. Ha ottenuto per sé la candidatura alla presidenza della Lombardia con discrete probabilità di vittoria (ma senza la certezza dei tempi andati). E per far accettare alla base l'accordo davvero indigesto con il partito berlusconiano, ha convinto il suo strano alleato, alla fine di una lunga trattativa non priva di ricatti, a compiere il fatidico mezzo passo indietro: Berlusconi non sarà candidato alla presidenza del Consiglio, riservandosi il ruolo di ministro dell'Economia nell'ipotetico (molto ipotetico) esecutivo di centrodestra.

La mossa avrebbe un senso se il centrodestra fosse vicino alla conquista della maggioranza. Ma in realtà si combatte per una posta minore: impedire che l'inevitabile affermazione di Bersani alla Camera si replichi al Senato. A questo fine la Lombardia è decisiva, benché non sia la sola: ci sono altre regioni cruciali per decidere quali saranno gli equilibri a Palazzo Madama (Campania, Veneto, Sicilia). In ogni caso Berlusconi ha fatto la sua mossa, sia pure con reticenza e sofferenza personale: avremo, almeno sulla carta, un altro candidato premier, mentre il vecchio leader si giocherà la sua partita come capo politico della coalizione.

Cosa significa in concreto? Non è chiaro. Berlusconi ha adombrato il nome di Alfano per Palazzo Chigi. Maroni ha risposto citando invece Tremonti. Non sembra che le idee siano ben definite. Anche perché c'è un punto da approfondire: la legge elettorale, il terribile "Porcellum", prescrive (o no?) che si vada al voto avendo già indicato il nome del candidato. Non può esistere un Pdl che indica Alfano e una Lega che vuole Tremonti. Fermo restando che spetta al presidente della Repubblica scegliere la personalità a cui affidare l'incarico, la norma prevede che una coalizione è tale quando si riconosce in un nome e in un cognome. Forse è il caso che Berlusconi e Maroni decidano nei prossimi giorni quale sarà il loro nome-bandiera: Alfano, Tremonti o una terza figura. Ma una scelta andrà fatta.

Altro punto. Logica vorrebbe che Berlusconi mettesse un freno al suo protagonismo e lasciasse il campo a mister X, cioè al futuro candidato premier della coalizione. Ma accadrà? C'è da dubitarne, considerando la personalità incontenibile del personaggio, animato da fiducia cieca solo in se stesso. Se poi consideriamo che i sondaggi indicano una parziale e modesta rimonta del Pdl da quando Berlusconi fa campagna, è bene che i leghisti non si facciano illusioni: il loro ingombrante alleato, quasi un padre-padrone, darà l'impronta a tutta la campagna, candidato o non candidato. Il Carroccio deve sperare solo nella vittoria di Maroni a Milano per giustificare il prezzo dell'intesa. Su cui peraltro il vertice della Lega è unito, a cominciare da Zaia.

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