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Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2013 alle ore 07:29.

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Si può pensare che le schermaglie fra Bersani e Monti siano solo una fucileria a salve pre-elettorale e che i due siano destinati a un matrimonio di convenienza subito dopo il 25 febbraio. Molti lo credono e non cambieranno idea in seguito alle polemiche fra i due sulla riforma del lavoro o sul futuro ruolo di Vendola.

Del resto è inevitabile che in questi duelli affiori un po' di gioco delle parti, visto che la convergenza d'interessi è reale. Tuttavia c'è anche dell'altro.
Esistono alcune divergenze strategiche fra il centro di Monti e il centrosinistra di Bersani che non possono essere sottovalutate. Se anzi fossero considerate nel merito, potrebbero impedire qualsiasi alleanza duratura fra Pd e Scelta Civica. Ma naturalmente la politica sa individuare i compromessi adeguati, quando vuole trovarli. In questo caso vediamo che il segretario del Pd da qualche giorno sta facendo rotta a sinistra. Quei sondaggi che danno Ingroia, con la sua coalizione estremista, in pianta stabile sopra il 4 per cento lo infastidiscono. E poi c'è Beppe Grillo che affonda i suoi colpi nello scandalo del Monte dei Paschi: vale a dire il peggior incubo mediatico per il centrosinistra, quali che siano le effettive responsabilità politiche. Se vogliamo c'è anche il seguito inaspettato che sta raccogliendo la lista di Giannino, in grado di sfilare voti a destra ma anche a sinistra.

Bersani ha detto in modo chiaro una cosa in sé ovvia: che non intende sacrificare l'intesa con Vendola a quella con Monti. Peraltro il Pd è ben "coperto": se a sinistra c'è il governatore della Puglia, sul lato destro il patto elettorale è con Bruno Tabacci, il cui "Centro Democratico" gira intorno all'uno per cento nei sondaggi. Può sembrare poco, ma in realtà l'esponente ex dc si è ritagliato un ruolo di frontiera.
La questione di fondo però non riguarda Vendola né tutto sommato Ingroia. È la Cgil la vera differenza di fondo fra Bersani e Monti. Il premier l'ha detto senza mezzi termini, quando ha indicato nel sindacato di Susanna Camusso il fattore che ha "frenato" la riforma del lavoro. Detto in termini diversi: se l'idea di Monti è una democrazia non-concertativa, dove nessuna organizzazione sociale può mettere "veti" alle decisioni governative, la Cgil diventa l'avversario da sconfiggere. L'opposto di quello che vuole Bersani, e non solo per gli storici rapporti con il sindacato. Infatti il candidato del centrosinistra descrive una nuova era della concertazione, quando a Palazzo Chigi saranno invitate anche le sigle della solidarietà e del volontariato.

Il messaggio di Monti può piacere a una certa Italia moderata e soprattutto a chi ci guarda dall'estero, come si è visto a Davos. È un messaggio piuttosto netto: il Pd lasciato da solo finisce per essere prigioniero della Cgil e quindi incapace di procedere alle indispensabili riforme economiche. D'altra parte, come può Bersani accettare un equilibrio di governo che gli imporrebbe di spezzare antiche radici sociali? E qui non si parla di Vendola, ovviamente, quanto del sindacato. L'equilibrismo bersaniano consiste nel tenere tutto insieme. Ma questo richiede una notevole forza elettorale contrapposta a una relativa debolezza della lista Monti. In caso contrario (Monti forte, centrosinistra impantanato al Senato) il premier avrebbe qualche argomento in più per imporre la sua ricetta.

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