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Questo articolo è stato pubblicato il 26 gennaio 2013 alle ore 08:16.

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Quando è la destra ad attaccare come un ariete, il Partito democratico in genere sa come difendersi. Se poi gli attacchi colpiscono le istituzioni, la difesa è di scuola e obbedisce a precisi criteri. Ieri «l'Unità» titolava su «la destra contro Bankitalia» e il sottinteso era piuttosto chiaro: per arginare le trame di leghisti e berlusconiani, quel che conta non sono le zone d'ombra intorno al Monte dei Paschi, con gli intrecci politici connessi, bensì la capacità di fare fronte contro chi vuole destabilizzare in modo irresponsabile alcuni caposaldi, in questo caso l'istituto di via Nazionale.

È una lettura degli eventi un po' zoppicante, ma rispecchia un vecchio criterio a cui la sinistra si appiglia sempre nei momenti difficili. In attesa che passi la nottata.

Sfortunatamente lo scenario cambia in modo radicale quando l'attacco viene non dagli avversari dichiarati del fronte opposto, bensì da Mario Monti, il premier che il Pd ha sostenuto nell'anno del governo "tecnico": il presidente ora dimissionario ma in carica ancora durante questa campagna elettorale in cui si presenta come leader della terza forza.

Se è Monti (e non Maroni o Tremonti) a dire, scandendo bene le parole, che «il Pd c'entra» con le vicende di Siena, visto che esistono evidenti commistioni fra il partito e il potere bancario, allora è evidente che la polemica sta facendo un salto di qualità, sulla base di un severo giudizio politico, quasi una sentenza. E la risposta è ancora vagamente imbarazzata, come se il vertice dei democratici fosse incerto fra il lasciar perdere, mettere la testa sotto la sabbia o replicare con pari durezza.

Affermare che «Monti ci trova un difetto al giorno, prima non succedeva mai» significa volersela cavare con l'ironia, ma è improbabile che sia sufficiente. Dal vertice bersaniano sarebbe preferibile una replica più strutturata, più politica: riconoscendo anche gli errori e le contiguità di un passato più o meno recente. Meglio una posizione franca ed esplicita che dover subire una dose giornaliera di veleno di qui al giorno delle elezioni.

Sotto questo aspetto non basta dire che Monti è «un cinico cacciatore di voti» (Franceschini), quando è chiaro che il premier cerca di mettere il dito nella piaga, negando verosimiglianza alla linea difensiva del Pd («noi non c'entriamo, il partito è il partito e la banca è la banca»). Sul piano politico resta da capire quanto si allontaneranno fra loro, su rotte divergenti, Monti e il centrosinistra. Si capisce che è in corso una partita molto delicata e che il premier non ci sta a essere presentato come la futura, inevitabile «stampella» del governo Bersani. Ma una rottura sul Monte dei Paschi, che fa seguito al profondo dissenso sul ruolo della Cgil, può alla lunga pregiudicare l'alleanza post-voto, quantomeno può renderla molto più incerta e onerosa per il Pd.

Del resto Monti si sforza di allargare il suo spazio anche verso destra. Da tempo il suo obiettivo è raccogliere i voti di chi non ne può più di Berlusconi. Per cui egli si presenta come l'erede naturale del centrodestra, con cui sarebbe disposto a stringere accordi se solo Berlusconi scomparisse dalla scena. Detta così, in piena campagna, è quasi una provocazione. Ma la storia è lunga e chi ha più filo tesserà. Certo non sarà semplice nel frattempo definire un governo insieme a Bersani.

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