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Questo articolo è stato pubblicato il 28 gennaio 2013 alle ore 08:20.
L'ultima volta. L'ultima volta al voto così. Liste bloccate, candidati senza volto, lotteria del Senato. Alla fine a votare ci si va pure (forse), ma quanta fatica. E con una certezza: l'ultima volta così.
La maggiore presenza di donne e giovani che emerge dall'analisi delle liste non deve far dimenticare il problema di fondo.
Il nuovo Parlamento non sarà il frutto delle scelte degli elettori, ma degli equilibri algebrici con cui i partiti hanno collocato i candidati nelle posizioni eleggibili delle rispettive liste. Sono pochi i candidati che sapranno solo la sera dello spoglio elettorale se saranno diventati parlamentari o meno. Alcune decine, un centinaio forse. Per tutti gli altri il destino è già segnato: sono già dentro o sono già fuori. E i loro sostenitori nulla, o quasi, possono fare per cambiare il loro destino.
Al Pd va riconosciuto di aver valutato per tempo la disaffezione che questo sistema alimenta. E la caparbietà con cui Pierluigi Bersani ha voluto le primarie per ridare una qualche forma di scelta agli elettori è, probabilmente, la principale ragione del vantaggio di cui oggi gode il suo partito nei sondaggi.
Questo non toglie, però, che se oggi si va a votare con un sistema che si è meritato il titolo di Porcellum lo si deve a responsabilità diffuse di tutte le forze politiche. Il Governo tecnico era nato su un patto non scritto che prevedeva una sorta di divisione del lavoro: a Monti e ai suoi ministri sarebbe toccata l'iniziativa sulle riforme economiche, ai partiti e al Parlamento quella sulle riforme istituzionali. Le prime, alcune buone altre molto meno, sono state approvate in gran numero, le seconde sono rimaste totalmente al palo.
Riforma elettorale, riduzione del numero dei parlamentari, superamento del bicameralismo perfetto: nulla è stato fatto. Proposte e discussioni tante, fatti nessuno. Solo accuse reciproche e scarichi di responsabilità. E una sensazione finale: quella che in realtà lo status quo alla fine andava bene a tutti.
È per questa ragione che non si può non assistere con una forte dose di diffidenza alle promesse di questa campagna elettorale sulle riforme istituzionali.
Tutti i partiti le stanno mettendo ai primi punti dei propri programmi, ma con quale credibilità? Tanto più che raramente si esce dalle generiche enunciazioni. Di impegni precisi, numeri, se ne sentono pochi.
Eppure la prossima dovrà essere necessariamente una legislatura costituente. L'economia resterà la priorità delle priorità, con l'esigenza di contrastare il declino e di rilanciare occupazione e produzione industriale. Ma a vent'anni dal crollo della Prima Repubblica è venuto il momento di dare un'architettura solida ed efficiente al sistema istituzionale. Un Parlamento snello, costi ridotti certi e controllabili, un percorso delle leggi rapido e senza duplicazioni, una legge elettorale che restituisca all'elettore il diritto di scegliere e che produca maggioranze certe e stabili.
L'auspicio è che nei prossimi giorni su questi temi le forze politiche siano in grado di formulare proposte più concrete. Ma soprattutto che si impegnino a intervenire subito, all'inizio della legislatura. Perché ormai è chiaro a tutti che quando le legislature volgono al termine le riforme non si approvano oppure si approvano pessime riforme. Il Porcellum e il Titolo V sono lì a testimoniarlo, come monumenti alla cattiva politica.
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