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Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2013 alle ore 08:18.
L'ultima modifica è del 30 gennaio 2013 alle ore 08:29.
Il vice-presidente della Commissione europea, Olli Rehn, si è affrettato a precisare nella serata di ieri che non era sua intenzione interferire con la nostra campagna elettorale. Segno che qualcosa del costume italico ha varcato le Alpi. Questo dire e poi smentire è tipico della politica romana, ma di solito non attenua il messaggio: serve in genere a salvare le forme.
È quello che ha fatto Rehn: pur salvando la forma, ha fatto capire con chiarezza qual è il risultato delle elezioni più gradito in Europa. Dovrà essere un esito in grado di tenere Berlusconi lontano dall'area del governo, visto che all'ex premier l'esponente della Commissione fa carico di aver tradito gli impegni presi nel 2011 con l'Unione, esponendo di conseguenza l'Italia al rischio del collasso finanziario.
S'intende che nel partito di Berlusconi ci si è indignati. Brunetta ha chiesto le dimissioni di Rehn e Berlusconi, forse non a caso, ha scelto la giornata di ieri per affermare che lui cerca «il consenso degli italiani, non quello della signora Merkel». Aggiungendo che, in caso di vittoria del centrodestra, «la musica cambierà». Come dire che l'Italia inaugurerà una sua politica autonoma dall'influenza di Berlino.
Cosa significhi in concreto non è chiaro, visto che i vincoli di bilancio varranno, nel caso, anche per Berlusconi. È vero però che le parole di Rehn hanno gettato un grosso sasso nelle acque già agitate del dibattito elettorale. Hanno eccitato un vago sentimento nazionalista che Berlusconi a tratti incoraggia. E in effetti nel centrodestra si sono stracciati le vesti in tanti, come testimonia la reazione di Alfano e di altri: tutti indignati per l'«ingerenza» della Commissione. Eppure l'intervento del vice-presidente può essere inopportuno sul piano politico, ma non è certo illegittimo.
Nell'Europa senza più frontiere della moneta unica e del «fiscal compact» non circolano liberamente solo le persone, ma anche le opinioni. Comprese quella dei commissari-guardiani dell'Ue, la cui attività non a caso scandisce la vita economica dei Paesi membri in ogni stagione dell'anno. Che queste voci debbano tacere in campagna elettorale è una tesi a cui nessuno crede, ma che si preferisce sostenere con una certa dose di ipocrisia quando è conveniente farlo. In realtà quello che accade in Francia e in Germania interessa agli italiani come mai in passato; per contro a Parigi e a Berlino si guarda con attenzione alle scelte del nostro Paese. E non potrebbe essere altrimenti.
Certo, non si può dar torto a Mario Mauro, storico parlamentare europeo, prima con il Pdl e oggi candidato con la lista Monti. Dice Mauro di avvertire un senso di fastidio quando sente «parlare male dell'Italia in Europa e dell'Europa in Italia». Sotto questo profilo si può persino dubitare che l'intervento di Rehn ottenga il risultato auspicato. Potrebbe addirittura innescare un moto di irritazione verso l'Europa e le sue ricette impopolari. C'è da augurarsi che non sia l'inizio di qualcosa di peggio, come farebbero pensare le frasi berlusconiane contro l'Europa tedesca e la necessità di suonare un'altra musica. In ogni caso Rehn fa capire che a Bruxelles e nelle maggiori capitali si farà di tutto per tenere l'Italia agganciata a una cornice di stabilità politica. E sappiamo, del resto, che il Ppe ha già compiuto da tempo la sua scelta pro-Monti.
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