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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2013 alle ore 06:40.
Arriverà oggi, dalla direzione di "Fare per fermare il declino", la parola finale sulle sorti di Oscar Giannino. Il giornalista ha voluto che fosse l'unico organismo politico di vertice del movimento a decidere «tutto il necessario»: se cioè continuare a svolgere fino in fondo la funzione di presidente e candidato premier o anche rinunciare al seggio, qualora eletto. Una sorta di nuova legittimazione che, come sembra, difficilmente verrà negata al leader impegnato in prima persona nel faticoso superamento delle soglie stabilite per varcare la soglia dei due rami del Parlamento. Anche se si rincorrono voci non confermate di ulteriori defezioni di rilievo nelle prossime ore.
Per Giannino ieri è stato il giorno delle scuse pubbliche dopo lo scoppio del caso sul master, in realtà mai conseguito, alla Chicago Booth. Di parole, malgrado l'amarezza per il rischio di vedere disorientati i simpatizzanti, di rinnovata stima verso il suo accusatore, l'economista Luigi Zingales. «Non procedo per illazioni, è una persona di grande statura e dirittura morale» dice riferendosi all'«amico» con cui ha collaborato dalla prima ora per la nascita di "Fare per fermare il declino". Ma pure di non tanto velate riserve sulle modalità con cui si è arrivati alla denuncia da parte del professore: «Non posso immaginare che Zingales non capisse l'effetto a quattro giorni dal voto».
In una conferenza stampa Giannino ha spiegato di aver frequentato a Chicago negli anni 90 lezioni di inglese tecnico-economico con degli insegnanti privati. Però non si è sottratto all'autocritica per il «clamoroso autogol» di cui riconosce a se stesso piena paternità. «Il mio errore sta, da un lato, nel non sapere del master attribuitomi on line ma anche di aver parlato in maniera tale che l'ascoltatore capisse che avevo un titolo della Chicago Booth». Ammissioni che non sono bastate a Luigi Zingales, dimessosi in coerenza con i principi di «onestà, trasparenza e accountability» del movimento (si limita a dire: «non voglio speculare su questa vicenda, che è molto triste»).
Nella chiacchierata con i giornalisti, Giannino è poi entrato nel dettaglio di alcune idee che da qui alle urne segneranno il progetto di "Fare per fermare il declino". Tre «rivoluzioni» come assaggio: far scendere progressivamente fino allo zero per cento la partecipazione pubblica nelle grandi aziende, portare da un milione a 100mila le firme necessarie per presentare un disegno di legge di iniziativa popolare, prevedendo l'utilizzo delle nuove tecnologie, fare in modo che lo Stato paghi entro 60 giorni i fornitori, fornendo alle banche la garanzia della Cassa depositi e prestiti. Ciò attraverso l'istituzione, presso la presidenza del Consiglio, di un garante (con poteri esecutivi) dei diritti dell'impresa nei confronti della Pubblica amministrazione. Con l'aggiunta di una proposta, questa sì choc, per il Mezzogiorno anticipata al Sole 24 ore: «Le grandi imprese estere attive nel campo della realizzazione delle infrastrutture o nella valorizzazione del patrimonio culturale possono essere attratte consentendo loro di radicarsi in Italia non nel nostro ordinamento civile bensì in quello di common law di un altro Paese europeo, la Gran Bretagna, come normalmente si fa tra privati in tanti settori del mercato mondiale. Forse così si incentiva finalmente un cambiamento della giustizia civile e amministrativa italiana».
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