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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2013 alle ore 08:15.
Quello che verrà dovrà essere in ogni senso il governo della crescita. Nel rispetto del fiscal compact, avrà il compito di creare nuovi posti di lavoro, riaccendere la fiammella degli investimenti e dei consumi quasi spenta dalla gelata dell'austerity, liberare risorse per il credito e dare risposte credibili ai fornitori della Pa che vantano crediti stimati da Banca d'Italia e Ragioneria dello Stato in almeno 70 miliardi di euro.
Confindustria ha proposto una terapia d'urto da 316 miliardi di risorse pubbliche, adeguatamente coperte, per una crescita di almeno il 2% all'anno che abbia l'industria come motore propulsore. È la stessa Commissione europea del resto ad aver alzato l'asticella della manifattura al 20% del Pil, un obiettivo che per l'Italia, dopo un quarto di produzione industriale ceduta in quattro anni, significa un totale ribaltamento di priorità. Di qui l'esigenza ineludibile di un piano serio di politica industriale, che da un lato valorizzi l'innovazione tecnologica premiando fiscalmente gli investimenti e dall'altro sgravi le imprese da un macigno burocratico che impatta sulla crescita per 73 miliardi di euro.
I dati sulla spesa italiana in ricerca, 1,26% rispetto all'1,9% medio della Ue, sono un duro monito per un Paese che deve sapere eccellere anche nel differenziale tecnologico di produzioni tradizionali come quelle del made in Italy e che non può permettersi ulteriori indugi sull'introduzione di un credito di imposta strutturale che, con un impegno da 700 milioni nel primo anno, potrebbe già garantire investimenti da parte di 10mila imprese. Molto altro, ovviamente, dovrà supportare il rilancio dell'industria, da un piano dettagliato per la bonifica dei siti industriali e la riqualificazione delle aree di crisi a un impegno più coraggioso nel sostegno alle piccole e medie imprese che rischiano la strada dell'internazionalizzazione.
Sul fronte delle semplificazioni, l'elenco delle priorità rischia di essere sterminato. Per iniziare, basterebbe però recuperare quanto già era stato elaborato nel disegno di legge del ministro Patroni Griffi e nel ddl delega fiscale, entrambi smarriti nelle nebbie di fine legislatura. Gli alleggerimenti normativi in tema di sicurezza del lavoro, edilizia ed obblighi relativi al Durc (documento unico di regolarità contributiva) potrebbero subito ottenere la corsia preferenziale del decreto legge.
Pari coraggio richiederanno le scelte sulle infrastrutture, per liberare la leva delle risorse private mediante benefici fiscali allargati alle opere medio-piccole, e sul Mezzogiorno, negli ultimi anni colpevolmente uscito dal monitor delle priorità. Ancora una volta per il rilancio del Sud c'è a disposizione la chance dei fondi europei. Le elezioni e il cambio della guardia a Palazzo Chigi non saranno un alibi credibile per chi dovesse mancare l'obiettivo imposto da Bruxelles di spendere 31 miliardi della programmazione 2007-2013 entro il 2015 e soprattutto di mettere a frutto i 59 miliardi (tra risorse Ue e cofinanziamento) che dovremo gestire tra il 2014 e il 2020.
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