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Questo articolo è stato pubblicato il 01 marzo 2013 alle ore 07:55.
Lo psicodramma italiano continua senza grandi novità. Piccoli indizi, qualche segnale: ma è troppo presto per sapere se avranno un seguito, ad esempio, le caute aperture di D'Alema al Pdl ("Corriere della Sera"), peraltro ridimensionate e corrette da lui stesso. Oppure se c'è del vero nella curiosità attenta che viene attribuita a John Kerry, nuovo segretario di Stato, nei confronti dell'esercito dei Cinque Stelle.
«I seguaci di Grillo sono degli interlocutori possibili, ma vanno convinti uno a uno» è stato spiegato all'ospite americano durante un pranzo con esponenti di rilievo della nostra politica, tra i quali Prodi e Amato.
L'attenzione americana è plausibile, una volta assimilato che Grillo non è nemico degli Usa in termini ideologici. Certo, restano non poche zone d'ombra: dalla simpatia espressa dal leader nei confronti di Ahmadinejad alla bizzarra pensata di fornire ai fondamentalisti islamici del Mali le coordinate per bombardare Montecitorio.
Se erano battute di spirito, non hanno fatto molto ridere. Ma in questa fase conviene a tutti, anche all'America di Obama, sorvolare e puntare invece sul pragmatismo dei grillini. Uno a uno... In effetti se la strategia del Pd si esaurisce nel propugnare un governo di minoranza, non c'è altro da fare che questo: una paziente opera di convincimento per recuperare i meno intransigenti del Movimento. Con la segreta speranza, s'intende, di ammorbidire lo stesso «portavoce». Almeno per ottenere da lui quel voto di fiducia indispensabile per far nascere un governo, sia pure minoritario. Questo aspetto costituzionale non sembra ancora chiaro dalle parti di Grillo, ma si nutre fiducia. E la lentezza delle procedure in certi casi aiuta, a patto di dimenticare le urgenze del paese. C'è anzi chi arriva a sostenere che «ci sono molti punti di contatto fra il programma del Pd e quello del M5S» (Tabacci) e i democratici vogliono crederci.
Lo scetticismo degli osservatori stranieri, le paure tedesche circa il «contagio», la nuova copertina dell'"Economist" che riprende l'immagine dei due "clown" (Grillo e Berlusconi): tutto questo incide poco nel dibattito post-elettorale. Si preferisce non pensarci troppo e convincere Kerry che con i grillini si può essere amici. D'altra parte, se la stella polare è il governo di minoranza, il resto ne deriva. Il "modello Sicilia" diventa il punto di riferimento: nell'isola funziona, come ha ben spiegato il "Giornale di Sicilia". Ma a Roma, per la verità, sarebbe un'altra storia.
Non a caso D'Alema aveva provato a suggerire una strada diversa: un compromesso istituzionale per eleggere i presidenti di Camera e Senato. Al centro-destra Palazzo Madama, dove già siede Schifani; ai grillini la Camera; a un esponente indicato dal Pd, Palazzo Chigi. Dal consenso trovato per sistemare i vertici delle due camere nascerebbe una nuova «strana maggioranza» volta a reggere un governo semi-tecnico e semi-politico. Un governo «di scopo», come si dice, fondato su pochi punti.
Nel complesso una buona proposta, che teneva conto dello stato d'animo e forse del pensiero di Giorgio Napolitano. Ma D'Alema in serata è tornato anche lui sull'esecutivo di minoranza, timoroso anche lui che qualcuno potesse leggere le sue riflessioni come un avallo al "governissimo" con Berlusconi. Si torna da capo. E in tutto questo Grillo si muove con accortezza. Si è sentito difeso da Napolitano in Germania (la polemica con Steinbrück) e subito ha ricambiato, definendo il capo dello Stato «il mio presidente». Segno che Grillo vuole giocare una partita non ovvia in prima persona, anche se naturalmente non accetterà mai Bersani premier.
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