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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2013 alle ore 16:24.
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In Italia la quota di Pil da cultura in senso ampio è del 5,4 per cento. Gli occupati del settore in Italia sono oltre 1 milione, con una crescita annua dello 0,8% fra il 2007 e il 2011, a dimostrazione della capacità della cultura di essere anticiclica rispetto al calo dello 0,4% complessivo. Dovrebbe essere vista, a cavallo tra turismo, stile e made in Italy, come un moltiplicatore di risorse. Prima che l'entità delle risorse, il problema riguarda però il modo in cui esse vengono spese. Occorre ripensare il ruolo del settore pubblico in tali ambiti e le modalità con cui la spesa pubblica viene gestita. Per quel che riguarda scuola e università, la dotazione di risorse va aumentata, ma con meccanismi che premino il merito (sia a livello di individuo che di istituto) e garantiscano piena autonomia e responsabilità. Nel caso della ricerca è poi essenziale favorire la possibilità di investimenti privati. Analogo è il ragionamento a proposito del patrimonio culturale del nostro Paese, dove lo Stato si è ritagliato un ruolo troppo ampio per le sue risorse. Rivedere e diminuire le funzioni del settore pubblico nella amministrazione del patrimonio è necessario per utilizzare meglio il denaro pubblico, aprendo spazi a nuovi soggetti per una gestione "altra" dei beni culturali italiani. Questo implica anche una sostanziale riduzione della burocrazia legata alla valorizzazione dei beni artistici e culturali.
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In primo luogo attraverso un maggior coinvolgimento dei privati – profit e non profit – per la valorizzazione del patrimonio artistico e monumentale tramite un ampliamento temporale della "concessione", la valutazione di strumenti giuridici come il global service e la concessione di valorizzazione e delega dei servizi pubblici. Senza dimenticare l'affidamento di beni non accessibili o in disuso a comitati artistici privati. Serve una cabina di regia centrale di indirizzo, costituita in primis da giovani e donne di provata esperienza nel settore di riferimento e nell'uso delle nuove tecnologie, che premi trasparenza, economicità, innovazione e sostenibilità. Vanno incentivate fiscalmente imprese e privati che investono in cultura, ad esempio equiparando fiscalmente le sponsorizzazioni alle donazioni, liberalizzando i prezzi in ambito editoriale e riordinando il settore con l'uso delle nuove tecnologie, per facilitarne la promozione e la fruizione per i cittadini italiani e stranieri. Lo Stato deve ritagliarsi un ruolo di sorveglianza e di controllo, incentrato soprattutto sulle funzioni di tutela. Per dare dinamismo al settore, occorre anche rimuovere molte delle limitazioni sull'esercizio dei diritti di proprietà di beni privati (si pensi ad esempio agli effetti della cosiddetta "notifica" sul mercato dell'arte). Inoltre andrebbero inseriti maggiori elementi di mercato anche in altri ambiti culturali (cinema, spettacolo dal vivo, eccetera), in particolare attraverso la rimozione dei sussidi.
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Attraverso un sistema scolastico strutturato in maniera differente, la pratica artistica e musicale nelle scuole non costituirebbe un "problema". Allo stato attuale, invece, la scelta della didattica mediante programmi ministeriali decisi a livello centrale impone alle scuole rigidi standard e poco margine di flessibilità. Le scelte dovrebbero essere lasciate alle singole scuole, che – all'interno di criteri generali stabiliti a livello centrale – potrebbero scegliere come impostare la didattica, tenendo conto delle specificità locali e privilegiando pertanto alcune materie rispetto ad altre o alcuni metodi d'insegnamento rispetto ad altri. Saranno poi le famiglie a valutare le proposte formative e a decidere in quale istituto far studiare i propri figli. Questo approccio è peraltro coerente con la nostra idea di riforma "meritocratica" della scuola: un istituto deve essere finanziato sulla base della sua capacità di garantire un'offerta didattica di qualità, e dunque di attrarre studenti anche creando percorsi di apprendimento innovativi e diversificati. In questo senso agli istituti va garantita la massima autonomia, anche nella selezione del personale docente.
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I problemi dell'industria creativa sono per molti versi simili a quelli dell'intero tessuto produttivo italiano, e riguardano la difficoltà di "fare impresa": fisco complesso e vessatorio, inefficienza della giustizia, rigidità del mercato del lavoro, difficoltà nell'accesso al credito. Pure in questo ambito è pertanto fondamentale rimuovere i numerosi vincoli derivanti dal quadro regolatorio italiano per ottenere nuove opportunità, in termini di crescita economica e occupazionale. I beni culturali non sono ancora digitalizzati, per esempio un visore asservito a gps con prospettiva tridimensionale e software che riproducesse i Fori Imperiali renderebbe i meri scavi attuali un vero e proprio parco tematico accrescendo visitatori ed entrate. Occorrono agevolazioni fiscali per poli retailer (librerie, sale cinematografiche, punti vendita musicali), la conferma definitiva potenziata del tax shleter e tax credit per le produzioni audiovisive.
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Riteniamo si debba intervenire secondo tre direttrici. In primo luogo, occorre introdurre meccanismi di valutazione della performance e meritocrazia nell'ambito dell'università e della ricerca. Chi produce di più – sia nella ricerca sia nella didattica – deve veder riconosciuto il suo impegno. Ciò deve valere sia a livello di individuo, sia a livello di dipartimento. Inoltre, è importante introdurre meccanismi di peer review che consentano di razionalizzare il finanziamento dei progetti di ricerca. L'università stessa deve assumere una dimensione internazionale, a partire da un più intenso utilizzo nella lingua inglese. Bisogna sforzarsi di aumentare le risorse a disposizione dell'università. Da ultimo, valgono per la ricerca una serie di interventi di portata più generale: per esempio, poiché l'investimento in ricerca è soprattutto investimento in persone, l'abolizione dell'Irap è un elemento di grande rilevanza, così come la detassazione degli investimenti privati in ricerca.
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