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Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2013 alle ore 07:25.
L'ultima modifica è del 09 gennaio 2013 alle ore 08:38.

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La questione della condizione carceraria in Italia irrompe nella campagna elettorale, ma con quali esiti concreti nessuno può dirlo. Certo, la dura condanna espressa dalla Corte di Strasburgo per i diritti umani non stupisce nessuno. Lo stesso ministro della Giustizia Paola Severino, che si dichiara «avvilita», se l'aspettava. È una macchia per il nostro paese e le parole di Napolitano sono fra le più dure pronunciate dal capo dello Stato in questi ultimi anni: la sentenza «è una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena».

Una frase drammatica se a pronunciarla è il presidente della Repubblica. Il quale peraltro ha le carte in regola perché più volte nel corso del suo mandato che si avvia a conclusione ha richiamato il tema e lo ha sottoposto all'attenzione distratta delle forze politiche. Ma un verdetto così aspro da parte della Corte europea toglie qualsiasi alibi e mette in evidenza l'inconcludenza retorica del sistema.

Qualcuno obietterà che la condizione dei carcerati non è una priorità; in realtà lo è, come testimoniano le battaglie civili di coloro che in questi anni non si sono stancati di impegnarsi per cambiare le cose, a cominciare dai radicali di Pannella (il comitato Calamandrei ha assistito tre dei sette detenuti che hanno provocato il pronunciamento di Strasburgo).

In ogni caso la priorità della questione carceraria è imposta dalla nostra appartenenza all'Unione europea che prescrive precisi standard in tema di diritti umani. Non è un problema di "lassismo" bensì di civiltà giuridica. E adesso che i ritardi e le inadempienze non sono più ammessi, al punto che l'Italia ha solo un anno di tempo per correggere la situazione, l'aspetto politico diventa centrale.

Si può immaginare che il nodo delle carceri diventi qualcosa di più di un breve paragrafo nei programmi dei partiti? Dopo il commento del capo dello Stato, così dovrebbe essere. C'è il rischio invece che l'intera vicenda si esaurisca in un bengala polemico acceso nella notte e che subito dopo si torni all'ordinaria paralisi. Un anno tuttavia fa presto a passare e una condanna così drastica e perentoria, che accumuna l'Italia a paesi come la Russia, l'Ucraina, la Moldova, la Bulgaria e altri, non potrà non interpellare la responsabilità del prossimo governo politico. La riforma che prevede in molti casi pene alternative al carcere, nonché nuovi fondi per l'edilizia penitenziaria, non potrà restare nel cassetto. Quale che sia la maggioranza parlamentare che s'insedierà dopo il 24 febbrario.

Anche sotto questo aspetto c'è da augurarsi che nelle nuove Camere siano rappresentati deputati e senatori di ogni schieramento sensibili ai diritti civili. Se è vero che l'Europa non può essere solo "spread" e vincoli di bilancio, è altrettanto vero che bisogna dimostrare con lo slancio politico e con l'iniziativa legislativa che esiste nell'Unione uno spazio comune fatto di diritti e di sensibilità civile di cui l'Italia fa parte e non alla retroguardia.

In fondo l'avviso ricevuto dalla Corte giunge alla fine di una legislatura sfortunata, ma anche alla vigilia di una svolta politica. Una magnifica occasione per le forze politiche vecchie e nuove che vogliono dimostrarsi all'altezza della sfida.

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