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Questo articolo è stato pubblicato il 18 gennaio 2013 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 18 gennaio 2013 alle ore 08:30.
Cosa c'è di vero e cosa di forzato nella storia del «patto segreto» fra Bersani e Monti? Di vero intanto ci sono i sondaggi: il centrosinistra è dato fra il 35 e il 40 per cento (più vicino a questa seconda cifra); la coalizione del premier intorno al 14-15 per cento. Insieme superano la soglia psicologica del 50 per cento e sono in grado di controllare in modo agevole non tanto la Camera, dove c'è il premio di maggioranza, quanto il Senato, dove i seggi del solo centrosinistra si prevedono risicati.
Non è davvero strano immaginare che dopo il voto queste due forze tenderanno a unirsi per governare insieme. Del resto Monti e Bersani usano un linguaggio comune per evocare «la battaglia contro il populismo», espressione in codice per indicare che il nemico di entrambi è Berlusconi, almeno sul terreno delle politiche pro o contro l'Europa.
In sostanza non c'è bisogno di stilare «patti» per definire lo spazio di una futura collaborazione che in ogni caso dipenderà dai rapporti di forza elettorali. Più il Pd-Sel sarà forte, meno sarà disposto a fare concessioni a Monti sul piano del potere istituzionale, pur tendendogli la mano; più sarà Monti a uscire consolidato dalle urne e meno il centrosinistra sarà in grado di sottrarsi a condizioni severe per stringere un'intesa con i centristi. Il che chiama in causa ministeri importanti (economia, esteri) e al limite anche la fatidica presidenza del Consiglio. Detto questo, è chiaro che è soprattutto Bersani oggi a trarre vantaggio da una campagna meno aggressiva da parte di Monti. L'interesse del Pd consiste nell'avere contro solo Berlusconi, in una competizione di tipo bipolare. Più la terza forza si eclissa o almeno si mette in un angolo del ring elettorale, più la strategia del centrosinistra ha possibilità di successo.
Quindi il «patto» può essere stato concepito solo nell'ambito del Pd. Ma concepirlo non equivale a metterlo in pratica durante la campagna. Il confronto elettorale sarà a tre, è inevitabile: anche perché Monti non può rinunciare a distinguersi dalla sinistra, se vuole conquistare un po' di voti nell'area moderata o berlusconiana. E si parla soprattutto del grande serbatoio dell'astensione, alimentato dai delusi del Pdl che tali restano nonostante le esibizioni televisive del leader (o forse proprio a causa di esse).
Il punto di fondo, la parola chiave, resta la stabilità. È questo che chiedono i mercati, gli investitori, le cancellerie europee. Il rischio che venga a mancare un quadro di certezze fa paura in vista del prossimo futuro. Non a caso ieri la Banca centrale europea ha indicato l'«incertezza» come fattore che allontana gli investimenti stranieri.
Allora ecco che il prossimo governo, quello che darebbe maggiori garanzie all'Europa rispetto all'esigenza di stabilità, è con ogni evidenza quello fondato sul binomio Bersani-Monti (o Monti-Bersani, s'intende). Con Vendola messo in una posizione subordinata, come fece Mitterrand in Francia con il comunista Marchais. E questo non tanto per l'effettiva pericolosità delle posizioni del governatore, quanto per il significato simbolico dell'alleanza con il Sel. È chiaro in ogni caso che a Monti, a differenza di Bersani, non conviene per nulla fare un mese di campagna elettorale inseguito dal sospetto di aver sottoscritto misteriosi «patti» con il competitore di sinistra.
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