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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2013 alle ore 08:12.
L'ultima modifica è del 29 gennaio 2013 alle ore 08:36.

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Che cosa irrita in modo così palese Bersani a proposito della campagna elettorale di Monti? L'improvvisa promessa di ridurre le tasse dopo i mesi del rigore? Le battute sulla vicenda del Monte dei Paschi e sugli intrecci fra politica (leggi Pd) e banche? Forse sì, ma non è solo quello. E non è nemmeno la "querelle" sull'eventuale, nuova manovra economica.

La verità è che come sempre la campagna elettorale non è il momento migliore per entrare nel merito dei problemi. Anche chi lamenta l'assenza di «temi concreti», è consapevole che le priorità sono altre. Questa campagna non fa eccezione ed è improbabile che un politico esperto come Bersani si sia risentito solo per il crescente attivismo di Monti, per quel tono non più tanto austero con cui il premier uscente annuncia di voler ridurre l'Imu o l'Irpef.

L'irritazione di Bersani non riguarda solo il merito delle cose dette. Anche perché, ad esempio, è impossibile stabilire oggi se il futuro governo dovrà mettere mano entro giugno a una manovra economica integrativa e di quale entità. Dipenderà da molti fattori tecnici e non solo da chi vincerà le elezioni, come ha lasciato intendere il presidente del Consiglio. In altri termini, le schermaglie in periodo elettorale costituiscono il pane quotidiano e non sorprendono nessuno.

Ma ci sono altre questioni su cui i politici sono molto sensibili. In questo caso ciò che realmente disturba il segretario del Pd è il timore che la coalizione di Monti abbia in mano la «golden share» della maggioranza. Che sia il premier, magari con un 14-15 per cento dei voti, l'uomo in grado di condizionare gli equilibri e i programmi del nuovo esecutivo.

Ora, è vero che proprio ieri il sondaggio Tecné per Sky indicava, un po' a sorpresa, che al Senato il centrosinistra è appena un seggio sotto la soglia utile per essere autosufficiente. Ma altri istituti sono meno ottimisti e di sicuro Bersani li studia tutti. Ai suoi occhi - e a quelli di altri dirigenti del Pd - la colpa imperdonabile del leader centrista è quella di voler «impedire» ai democratici una piena vittoria anche a Palazzo Madama. Vittoria che li metterebbe al riparo da qualsiasi condizionamento.

Si avverte nelle parole del segretario del Pd la sorpresa per un "centro" meno rassegnato e statico di altre volte; nonché la strenua volontà di riaffermare la logica di un bipolarismo che negli anni non ha dato molto al paese, ma ha garantito ampie rendite di posizione ai due maggiori schieramenti. Il che spiega molte cose, a cominciare dal fatto che si è tornati a votare con il "Porcellum", grazie alla convergenza di fatto fra Pd e Pdl nel dire "no" a qualsiasi riforma.

Il timore di Bersani, come egli stesso dichiara, è che Monti si ritrovi la sera del 25 febbraio a essere «l'ago della bilancia». Né più né meno. Un soggetto in grado di negoziare da posizioni di forza l'appoggio e l'eventuale partecipazione al nuovo governo. Capace persino di rendere credibile e gestire un'ipotesi di grande coalizione, sia pure in forma tattica. Incalzato com'è da sinistra, dalla lista di Ingroia e dal movimento trasversale di Beppe Grillo, il Pd fatica ad accettare una sfida al centro. Una sfida che tende a delegittimarlo come forza riformista. Ma è vero un punto: se l'operazione Monti riesce, i democratici dovranno scendere a patti su tutto.

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