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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2013 alle ore 14:26.

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Una sfida tra sinistra identitaria e destra divisa. Questa è la sintesi di queste elezioni. Da questo punto di vista il quadro è simile a quello del 1994, prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi. Allora a sinistra c'era la coalizione dei Progressisti di Achille Occhetto. Comprendeva Partito democratico della Sinistra, Rifondazione comunista, la Rete, il Psi, i Verdi e Alleanza democratica. Nei collegi uninominali della Camera ottenne nelle prime elezioni della Seconda Repubblica il 33,1% dei voti. Nella parte proporzionale i suoi elettori furono il 34,3 per cento. Senza l'intervento del Cavaliere con questi numeri la sinistra avrebbe vinto e sarebbe andata al governo da sola per la prima volta nella storia del paese. Era un esito possibile grazie alle nuove regole di voto maggioritarie che avrebbero trasformato il 33,1% dei voti Progressisti in maggioranza assoluta di seggi. Bastava solo che la destra italiana restasse divisa. E invece saltò fuori Berlusconi che riuscì in maniera rocambolesca a metterne insieme la maggior parte dei pezzi. Vinse le elezioni. E la sinistra dovette rinviare il suo appuntamento con la storia.

Dopo 19 anni siamo tornati lì. La ruota è girata e oggi Berlusconi e sinistra sono di nuovo faccia a faccia, con Bersani al posto di Occhetto. Ma quale sinistra? La sinistra del 2013 non è certo quella del 1994. Molta acqua è passata sotto i ponti. Di mezzo ci sono stati l'Ulivo di Prodi e il Pd di Veltroni. Un pezzo della sinistra radicale di allora non è dentro la sinistra di oggi. Tutto vero. Ma alla fine la coalizione di Bersani che si candida a governare il paese non è tanto diversa da quella del 1994. Il suo nucleo organizzativo e ideologico è ancora quello dell'apparato del Pds di allora. La sua base elettorale è la stessa, più o meno il 34% dei voti. Certo, gli elettori non sono gli stessi. La componente moderata è cresciuta. Il Pd ha più voti del Pds. Eppure la sua base geografica e sociale è rimasta la stessa. Come quella di Occhetto, la coalizione di Bersani ha i suoi punti di forza nelle regioni della zona rossa, tra i lavoratori dipendenti e nelle grandi città. La sua posizione nel Nord Est resta debole. Anche oggi non ha un'offerta capace di rappresentare gli interessi dei ceti produttivi di questa parte del paese. Anche se il suo leader esprime certamente una maggiore attenzione verso le domande del settore industriale.

Poco è cambiato in quasi venti anni. Ma oggi la sinistra può vincere. E anche questa volta, come avrebbe potuto accadere nel 1994, dovrà ringraziare il sistema elettorale. Non è quello di allora, ma è comunque - alla Camera - un sistema iper-maggioritario. Con il 34 % dei voti Bersani e il suo alleato Vendola potrebbero ottenere il 54 % dei seggi. Se così fosse, a Bersani riuscirebbe quello che non riuscì a Veltroni nel 2008 con il 37,5 % dei voti. Tutto questo per una ragione decisiva: la divisione della destra. Con una destra unita questa sinistra non avrebbe potuto farcela.

È la crisi del berlusconismo a fare la differenza rispetto al 1994. Chi dentro al Pd ha puntato più sull'identità che sul cambiamento forse ha avuto ragione. Renzi può attendere. A volte in politica si può vincere anche senza troppi mutamenti. Dipende dalle circostanze e dalle regole. Ma questo lo sapremo con certezza solo lunedì sera. Quello che sappiamo già oggi è che, mettendo da parte Renzi, il Pd ha preferito non cambiare pelle. E così facendo ha rinunciato, come nel 1994, a rimescolare le carte della politica italiana e a creare un nuovo blocco politico e sociale. Alla domanda di novità ha risposto Grillo. Come fecero Berlusconi e Bossi alla fine della Prima Repubblica. In ogni caso questa volta la sinistra potrebbe diventare maggioranza in Parlamento grazie a un sistema elettorale generoso. Sarà però una minoranza che governa in un paese in cui la maggioranza continua a essere culturalmente e politicamente di destra.

Ma almeno una sinistra di governo oggi c'è. In altri momenti della nostra storia non è stato così. E anche questo misura il percorso che l'Italia ha fatto. Faticosamente e in maniera incompleta. Ma lo ha fatto. Oggi abbiamo una sinistra ancora tradizionale ma saldamente ancorata all'Europa. Non molto diversa dalla sinistra francese ma meno fortunata. Si vedrà dopo il voto, qualora il Pd vincesse, cosa vuol dire governare da sinistra un Paese di destra vincendo con un turno solo e non con due turni.

La destra invece è un "campo di Agramante". Liti e divisioni hanno distrutto quel poco di unità di intenti che Berlusconi era riuscito a costruire e che poi lui stesso ha contribuito a distruggere. Vecchi partiti hanno abbandonato la casa comune. Sono nate nuove formazioni. Ma quello che più conta è che una parte consistente dei suoi elettori si sono sparpagliati di qua e di là. Verso Monti in parte. Ma soprattutto verso Grillo. Intorno al Cavaliere ne resta un nucleo consistente ma più simile a quello del 1994 che a quello del 2008 quando il Pdl da solo prese il 37,4 % dei voti. Arrivati a questo punto, che lui vinca o no, l'Italia avrà comunque bisogno di una destra più unita e più moderna.
Questo è il quadro all'interno del quale gli italiani sono chiamati a fare una scelta per molti versi storica. Nel 1994 le conseguenze riguardavano solo noi. Oggi no. Riguardano anche l'Europa e il suo futuro.

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