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Questo articolo è stato pubblicato il 24 gennaio 2013 alle ore 16:44.
Il leader di Sel Nichi Vendola alla sua sinistra, il centrista Bruno Tabacci alla sua destra. Manca il socialista Riccardo Nencini, che «non è potuto venire». Eccola, la coalizione di centrosinistra guidata da Pier Luigi Bersani che si candida alla guida del paese assicurando «il cambiamento nella governabilità». È una coalizione che non ha bisogno di prendere patenti di affidabilità da nessuno perché è già «forza di governo in molte grandi amministrazioni» del Paese.
Bersani è irritatissimo con Mario Monti e la sua campagna contro le "ali estreme" delle coalizione da tagliare (nell'ottica del premier uscente le "ali" sono Vendola, il responsabile economico del Pd Stefano Fassina con la sua area di riferimento e la Cgil). «Noi la foto di gruppo la facciamo senza problemi – scandisce il leader del Pd –. Ora vorrei vedere la foto di Monti con Casini e Fini, quella di Ingroia con Ferrero e Di Pietro e quella di Berlusconi con Storace e Maroni».
Il governatore della Puglia è se possibile ancora più irritato di Bersani: «Faccio notare con quanta pignoleria io venga sottoposto quotidianamente all'analisi del sangue per quanto riguarda l'affidabilità di governo – dice arrivando a sbattere i pugni sul tavolo –. La mia esperienza alla guida della Puglia è esempio di stabilità e capacità di governo da qualunque indicatore economico». Ma sul rapporto con i centristi di Monti la posizione di Bersani e di Vendola non rischia di essere in contraddizione? (azzardano i cronisti). Bersani ripete che il suo schema resta quello di un'alleanza di governo con tutte le forze democratiche europee e antipopuliste purché sia chiaro che «chi vince ha la barra della politica, sennò le elezioni si fanno per sport». Vendola, da parte sua, nota che con la «destra democratica e costituzionale» di Monti è possibile dialogare sulla riforma dello Stato». E se al Senato non dovesse uscire una maggioranza chiara? «Bersani si presenterà davanti alle Camere con il nostro programma, non con quello altrui».
Proprio il rischio Senato è in realtà la cartina di tornasole dei rischi insiti nell'ambizione di Bersani di tenere unito quello che sembrerebbe destinato a divergere. Di fronte alla necessità dei voti centristi in Senato se dalle urne non dovesse uscire una maggioranza chiara, la sapiente costruzione dell'alleanza dei progressisti che guarda al centro potrebbe risultare insufficiente o addirittura inutile. Non solo per una questione di numeri, ma anche per la direzione di governo. A Monti che punta il dito contro la Cgil che ha frenato la riforma del lavoro, Bersani risponde che «quando governi tutti i sindacati sono figli tuoi, e la Cgil è un sindacato con milioni di iscritti».
Domani Bersani, invitato da Susanna Camusso, parteciperà a Roma alla presentazione del "Piano lavoro" del sindacato rosso. Un invito che il segretario del Pd non poteva certo rifiutare, e che serve anche a puntellare i voti a sinistra contro la concorrenza della lista Ingroia. Tuttavia la vicinanza alla Cgil rischia di essere di ostacolo alla "sintesi" delle varie anime del centrosinistra a cui è chiamato Bersani: l'economista Carlo Dell'Aringa e l'ex direttore di Confindustria Gianpaolo Galli da una parte, l'ex leader della Cgil Guglielmo Epifani con il responsabile economico del Pd Stefano Fassina e con lo stesso Vendola dall'altra. È proprio Dell'Aringa a dirsi sicuro che «Bersani è perfettamente in grado di fare la sintesi» e che il «rischio Unione è scongiurato dalla regola delle decisioni a maggioranza dei gruppi parlamentari».
Eppure il fatto che per il futuro ministero del Welfare si fa in casa Pd sia il nome di Dell'Aringa sia quello di Epifani la dice lunga sulla difficoltà di «fare la sintesi». Le stesse oscillazioni di Bersani in tema di tasse – prima l'annuncio di una vera e propria patrimoniale sugli immobili al di sopra del milione e mezzo poi il ridimensionamente a «rimodulazione dell'Imu» dell'operazione fiscale – sono lì a testimoniare la difficoltà di coprire tutto. E l'annuncio fatto in queste ore di voler introdurre una maggiore flessibilità in uscita in materia di pensioni – ossia, in sostanza, permettere di andare in pensione prima del tempo rinunciando a una parte dell'assegno – se da una parte ha il sapore del buon senso dall'altra rischia di vanificare una delle riforme strutturali più importanti varate dal governo Monti. Tenere tutto insieme è già difficile e non esime Bersani dal dover scegliere una volta al governo, se tutto andrà secondo i suoi desiderata. Ma tenere tutto insieme rischia di essere addirittura impossibile in caso di maggioranza non chiara in Senato.
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